Se la metafora bellica tenta la politica

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 O, PIÙ semplicemente, per sparare scemenze — e magari vedere che succede.
Chi si prenda la briga di digitare “guerra civile” anche solo nei titoli della banca dati dell’Ansa troverà circa 120 casi dai primi anni novanta a ieri, con una accentuazione nell’ultimo decennio. E se nella ricorrenza contabile Bondi risulta senz’altro uno degli habitué, risalendo la prima sua dichiarazione contro Violante al febbraio del 2003, è pur vero che due anni dopo in tre diverse occasioni se l’è presa con Prodi (in una lo sdegno lo portò a chiamarlo “il signor Romano Prodi”) accusandolo di introdurre e fomentare questa benedettissima “guerra civile”, appunto, che va e viene da vent’anni con l’indispensabile contributo della magistratura, ma come sostanziale, eppure alla lunga anche un po’ vano artificio retorico.
Per puro scrupolo documentario, e divagante statistica da ombrellone, si fa altresì presente che per l’ineffabile Bondi la prospettiva della guerra civile si configura come un richiamino nostalgico giacché a un certo punto egli cessò di evocarla, plausibilmente lasciando l’incombenza al più fresco Capezzone. Non solo, ma con il consueto slancio egli parve commutare la propria dedizione al Cavaliere ai metodi della non-violenza, con il che nell’autunno del 2006, “senza nemmeno consultare Berlusconi”, come specificò,
scese in sciopero della fame contro la legge Gentiloni sull’emittenza — e come ti sbagli? — che peraltro non aveva alcuna possibilità di essere approvata dall’esigua maggioranza di centrosinistra.
“Nel mio gesto — mise le mani avanti l’imminente ministro della Cultura — c’è una drammaticità reale che non può essere butata in caricatura”. Certo che no. E infatti Bondi, dopo qualche giorno, si sentì male e venne ricoverato all’ospedale di Lucera, patria di Bonghi, Salandra e di Gaetano Gifuni. Dopo di che riprese a mangiare. E adesso è anche riuscito a suscitare la riprovazione di Napolitano, cui ha pure risposto con ribalda fermezza.
Ma la faccenda lì rimane, l’uso abbastanza incivile della guerra civile resta come sospeso nel gorgo delle cose serie e talvolta anche tragiche che in Italia, regolarmente e smisuratamente, si fanno buffonesche e al tempo stesso nella lunga deriva recano in sè catastrofici effetti, come i golpe degli anni 70, e poi i fucili e le pallottole di Bossi, e ora le minacce di Beppe Grillo o l’esultanza di quei formidabili tipi dell’Esercito di Silvio che all’inizio non avevano capito che il medesimo era stato condannato.
Va da sé che l’espressione ha preso il via dopo la stagione di Tangentopoli e di Mani Pulite. E tuttavia, a rigor di logica, non fu quella una guerra civile per il semplice fatto — non privo poi di implicazioni e conseguenze che anzi hanno incanaglito la situazione — che la magistratura spazzò via buona parte del sistema di potere senza incontrare alcuna considerevole resistenza da parte dei potenti, anzi con il consenso e l’appoggio di alcuni che a distanza di qualche anno bollarono quella stagione e rivalutarono le sue vittime all’insegna della guerra civile.
E qui, non senza aver osservato che l’espressione è poi stata usata e abusata, dalla cassa integrazione al nucleare, anche da parte della sinistra, e di Di Pietro, e perfino di Buttiglione (“Senza il centro si rischia la guerra civile”) e di Taradash (“O riforma gollista o guerra civile”), ecco, sarà anche tardi, ma occorre pur dire che il gran fromboliere della guerra civile, passata presente e futura, è proprio lui, Berlusconi. Cioè lo stesso Berlusconi che nel 92-93 aveva lasciato che le sue tv dessero addosso a Craxi e ai dc, e che nel 94 avrebbe voluto Di Pietro al Viminale, ma che poi, nel novembre 2001, a Granada, in conferenza stampa con Aznar, se ne uscì per la prima volta con questa storia che, rinfacciandogli l’opposizione certe stramberie sull’Islam e le violenze del G8 a Genova e l’Associazione Magistrati la legge sulle rogatorie, insomma, in Italia c’era il rischio della guerra civile.
E i manuali della comunicazione televisiva impongono di ripetere, e ripetere, e ripetere, anche perche tali ripetizioni, non importa se irreali o bislacche, sceme, paurose o vittimistiche che siano, non solo iuvant, ma soprattutto trasmettono all’illustre ripetitore un senso di coerenza; e così fece lui ogni volta
che si trovava nei guai per qualche impiccio giudiziario: e tra persecuzioni e altre nefandezze, comunque c’era un clima di guerra civile, o la guerra civile vera e propria — per quanto nell’accezione che fin qui si è cercato di definire.
E tanto era così, tanto l’astuta risorsa era entrata nella routine che il 5 giugno scorso, mica vent’anni orsono, celebrando la pacificazione nel governo Letta, il Cavaliere proclamò la fine della guerra civile. Era naturalmente merito suo. Interrogato in proposito, il giovane presidente del Consiglio rilevò che il termine gli suonava “un po’ forte”. Ma dopo nemmeno due mesi ecco che ritorna proprio perché forte. E tra le poche consolazioni, e le speranze minime, c’è che chi la guerra civile l’ha vissuta sul serio qualcosina a Bondi si sentirebbe anche in diritto di spiegargliela.


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