Quella caccia grossa contro il libero accesso

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E le foto segnaletiche, proprio come un criminale comune. Del resto Aaron Swartz, una delle migliori menti della Rete suicidatosi lo scorso gennaio a soli 26 anni, per il governo Usa era questo: un criminale imputato di 13 capi d’accusa che gli avrebbero fatto rischiare fino a 35 anni di carcere e 1 milione di dollari di multa. Ma lui ha deciso di andarsene tre mesi prima del processo, impiccandosi nel suo appartamento. Pure, il dibattito su quell’ingranaggio kafkiano che ha progressivamente stritolato l’attivista continua ad andare avanti. E l’altro ieri si è aggiunto un nuovo tassello: sono state rilasciate 100 pagine di documenti sulle indagini del Secret Service su Swartz, un primo assaggio di una serie che si annuncia consistente.
Swartz era accusato di aver scaricato 4,8 milioni di articoli scientifici dall’archivio online Jstor utilizzando la sottoscrizione del Mit, il venerato Massachusetts Institute of Technology di Boston, tempio della tecnologia e della ricerca Usa. L’intento non era certo di trarne un profitto personale, ma di condividerli online, dato che il giovane programmatore (che aveva contribuito ad alcuni pilastri della cultura digitale, dalle licenze «Creative Commons» al formato RSS alla community di news Reddit) da tempo si batteva per un accesso libero al sapere – mentre quegli articoli, frutto perlopiù di ricerche finanziate con soldi pubblici, erano a pagamento. Nel caso fu subito portato il «Secret Service», l’agenzia federale americana che si occupa anche di frodi; e il giovane alla fine fu accusato di diversi reati legati alla violazione di computer e alla sottrazione di materiali.
Ora i documenti rilasciati riaprono diverse ferite. Innanzitutto confermano l’interesse dei federali verso le attività più politiche di Swartz, a partire da quel manifesto per una «guerrilla open access» scritto nel 2008 in Italia in cui l’attivista americano rivendicava l’imperativo morale di condividere informazioni. «L’intero patrimonio scientifico e culturale, pubblicato nel corso dei secoli in libri e riviste, è sempre più digitalizzato e tenuto sotto chiave da un pugno di aziende», scriveva nel breve pamphlet Swartz. «Non c’è giustizia nel rispettare leggi ingiuste. È tempo di uscire allo scoperto e, nella grande tradizione della disobbedienza civile, dichiarare la nostra opposizione a questo furto privato della cultura pubblica». Che l’attività politica di Swartz e le sue prese di posizione sulla condivisione del sapere abbiano influenzato negativamente l’atteggiamento del governo americano nei suoi confronti, sembra ormai assodato. Era già divenuto evidente in un rapporto del Mit uscito a luglio, in cui si capiva che il Dipartimento di Giustizia era a dir poco infastidito dalla pubblicità che il caso stava ricevendo. Secondo la relazione dell’istituto, il sostituto procuratore Stephen Heymann era adirato per la «selvaggia campagna internet» iniziata da Swartz sulla vicenda. Il riferimento è a una petizione online in suo favore lanciata da Demand Progress, un gruppo cofondato tempo addietro dal giovane imputato. Tra l’altro quella stessa organizzazione andava già di traverso al governo Usa dato che si era opposta con successo a una controversa legge sulla pirateria statunitense, la «Stop Online Piracy Act» (Sopa), la quale avrebbe reso molto più facile far chiudere siti web accusati di aver violato il copyright.
Di fronte all’attenzione mediatica e al dibattito pubblico suscitato dalla figura di Swartz, il procuratore avrebbe quindi deciso, per sua stessa ammissione, di portare il caso a un livello istituzionale. Insomma, alzare lo scontro e dare all’attivista una punizione. «Il fatto che l’accusa abbia cercato di fare un esempio di Aaron Swartz (…) solleva nuove domande sul modo in cui il Dipartimento ha gestito il caso», ha commentato il parlamentare Darrell Issa in una recente lettera inviata al ministro della giustizia statunitense Eric Holder.
Ma il rilascio dei documenti su Swartz continua a mettere in cattiva luce anche il Mit, già pesantemente criticato per non essere intervenuto in aiuto del giovane. Anzi, di fatto ne ostacolò la difesa, così come in questi mesi si è opposto alla pubblicazione delle indagini sull’attivista. Se oggi le possiamo leggere, e vedere come il Secret Service interrogasse gli amici del programmatore per sapere se era lui l’autore del manifesto sulla «guerrilla open access», o come gli agenti che perquisirono casa sua fossero delusi per non aver trovato quello che cercavano, è merito della caparbia di un giornalista della rivista Wired, Kevin Poulsen. Che ne ha ottenuto il rilascio attraverso una battaglia legale, facendo leva sul diritto di accedere agli atti della pubblica amministrazione garantito negli Usa dal «Freedom of Information Act» (Foia). Una legge fondamentale perché i cittadini possano esercitare un controllo sulle azioni dello Stato, che in Italia ancora manca, anche se è stata lanciata da poco una campagna ad hoc (www.foia.it).
Il Mit si era opposto alla pubblicazione dei documenti del Secret Service con la motivazione che si potessero identificare i suoi impiegati che hanno aiutato le indagini contro Swartz. Ma come ha scritto Poulsen, secondo le procedure della legge, i nomi di terze parti sono già oscurati. «Non ho mai visto, in 15 anni di giornalismo, un soggetto non-governativo cercare di interferire con il rilascio di documenti statali previsti dal Foia», ha scritto il giornalista. «È triste che una istituzione accademica crei questo precedente».
Del resto già dallo stesso rapporto del Mit emergeva l’atteggiamento tra l’indifferente e l’ostile dell’istituto nei confronti di Swartz. Il quale, secondo il pm, non era autorizzato ad accedere al network dell’università. Un aspetto contestato e cruciale su cui l’istituto ha preferito non esprimersi. Come hanno notato accademici del calibro di Lawrence Lessig, l’apparente neutralità tecnica del Mit si è tradotta nei fatti in una presa di posizione a favore dell’accusa.

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SCAFFALI

Le parole on-line

Di guide al mondo digitale sono orami pieni gli scaffali. Il volume di Tom Chatfield «Netimologia» (Rizzoli, EtasKompass) ha il pregio di scegliere 100 parole che dalla Rete sono tracimate nel lessico comune. Hacker, dominio, glashmob, trojan, troll non indicano solo personaggi, attitudini e aspetti tecnici della Rete, ma sono sempre più usate per definire comportamenti collettivi dentro e fuori dal cyberspazio.


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