QUEL PROCLAMA EVERSIVO

by Sergio Segio | 2 Agosto 2013 7:18

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Ma ha di fatto lanciato una sorta di “Rifondazione berlusconiana”. Come quasi venti anni fa, il Cavaliere ha cercato di ancorare se stesso e la politica italiana ad un appello condito di disperazione e populismo. Rispolverando tutta la vecchia litania anticomunista e il consumato arsenale anti-magistrati. Berlusconi non riesce ad uscire dal suo stereotipo, nonostante tutto il Paese si trovi adesso dinanzi ad una netta e definitiva differenza rispetto al 1994: c’è una sentenza di condanna definitiva. Eppure, nonostante abbia ricoperto per ben quattro volte la carica di presidente del consiglio, non riesce a liberarsi della sua carica anti-istituzionale e per certi versi eversiva. Perché non riconoscere – dopo tre gradi di giudizio – la decisione assunta dalla magistratura significa non riconoscere la funzione fondamentale in un sistema democratico dell’ordine giudiziario. «La sentenza di oggi mi conferma nell’opinione che una parte della magistratura sia diventata un soggetto irresponsabile, una variabile incontrollabile e incontrollata» che «condiziona permanentemente la vita politica italiana». Parole che cancellano il minimo senso dello Stato acquisito con la forza dell’inerzia. Delegittima tutti i magistrati per tutelare se stesso e rendere incredibile dinanzi all’opinione pubblica la sua condanna a quattro anni di reclusione.
Quasi inverando la teoria vichiana dei corsi e ricorsi, dunque, il leader del Pdl e della nascitura nuova Forza Italia, recupera dai precedenti decenni tutte le sue armi dialettiche tradizionali. Attacca appunto i giudici che lo hanno condannato, ricorda «l’azione fuorviante» di Mani Pulite e la battaglia contro la sinistra e il Partito comunista. Dimenticandosi che nel ’94 era stato lui a proporre un ministero ad Antonio di Pietro, simbolo del pool di Milano. Adesso, però, è come se il tempo per lui non fosse passato, come se per almeno metà di questo ventennio non fosse stato lui a Palazzo Chigi. Vuole un nuovo battesimo catartico centrato su una sorta di epopea costruita su misura. Non si tratta più del semplice “predellino” inventato nel 2007 per scaricare gli alleati che non gli hanno permesso di cambiare il Paese. No, stavolta la difesa emotiva della sua situazione processuale punta a ricreare le stesse condizioni del 1994. Con le medesime parole d’ordine demagogiche ma un po’ appesantite dalla storia e dalla cronaca. «Viviamo in un Paese che non sa essere giusto, soprattutto verso i cittadini onesti come me». Come allora, anche nel 2013 la misura di ogni cosa è la sua dimensione. Venti anni fa il punto focale erano le sue aziende, adesso lo sono ancora insieme ai suoi processi. Così anche adesso presenta agli italiani il modello imprenditoriale di Mediaset. Il valore delle sue aziende e le capacità degli “uomini del fare”. Come se volesse disegnare un prossimo futuro da leader non per se stesso ma per un altro capo azienda, magari come sua figlia Marina.
I corsi e ricorsi sono il segno distintivo del videomessaggio. «Ho dato un contributo alla modernizzazione del nostro Paese e ho messo tutte le mie forze nel tentativo di realizzare la rivoluzione liberale». Rispunta anche il sogno di una presunta rivoluzione liberale che, anche a Palazzo Chigi, non ha mai visto mostrare nemmeno un segno. Ma anzi concretizzarsi nell’esatto opposto delle leggi ad personam.
Nonostante qualche accenno alla sua età anagrafica («giunto quasi al termine della mia vita attiva»), Berlusconi ripropone il suo schema. «L’Italia è il Paese che amo», disse nel 1994. «È così – chiede nel 2013 – che l’Italia riconosce i sacrifici e l’impegno dei suoi cittadini migliori. È questa l’Italia che amiamo? È questa l’Italia che vogliamo?». L’ex premier si presenta agli italiani come vittima – è una delle cose che gli riesce meglio – e nello stesso tempo si prepara ad una nuova discesa in campo. La resurrezione di Forza Italia ne è una prova. Il governo, solo per ora, può restare al sicuro. Perché far rinascere la sua creatura elettorale, comporta anche il ricorso in tempi brevi al voto. Magari non con lui candidato premier, ma con un suo fedelissimo o qualcosa di più. La campagna elettorale è già iniziata, con i suoi modi e con i suoi tempi.
Ma l’Italia, in questo modo, ruzzola nel burrone del passato. Rischia di compiere un cieco salto indietro. A venti anni fa

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