Quel che resta del sogno l’America si divide su Martin Luther King

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NEW YORK — Meno dieci, il conto alla rovescia è cominciato: il 28 agosto a Washington affluiranno da tutta l’America per ricordare la marcia e il discorso che cambiarono l’America. Cinquant’anni fa nella stessa data, Martin Luther King pronunciò «I have a dream», un capolavoro insuperato di retorica politica, di predicazione carismatica, di utopia militante. Lo ascoltavano in 250.000 davanti al Lincoln Memorial sulla maestosa spianata del National Mall. John Kennedy lo seguiva in tv dalla Casa Bianca, impressionato dalla sua efficacia. Da Hollywood arrivò un jet carico di star: Harry Belafonte e Marlon Brando, Paul Newman e Charlton Heston. Fu il culmine della “marcia su Washington” che costrinse il Congresso a varare l’anno seguente il Civil Rights Act, la più importante legge sui diritti civili.
Time dedica la sua copertina alla celebrazione del cinquantenario, che si chiuderà con un discorso di Barack Obama nello stesso luogo dove parlò King. Il magazine s’interroga: nell’America che ha eletto e rieletto il primo presidente nero della storia, è “risolta” la questione razziale? Al quinto anno di presidenza Obama si è scontrato più volte con questo tema. Ogni volta per scoprire, dolorosamente, che la sua non è ancora una nazione pacificata.
«Per certi aspetti – scrive Time – l’America è andata oltre le aspirazioni del 1963. Cinquant’anni dopo un altro nero parlerà alle masse dal Lincoln Memorial, ma questa volta il suo palco avrà l’insegna presidenziale. Nella folla che ascolterà Obama ci saranno donne, minoranze e immigrati che hanno potuto salire su una scala della mobilità sociale inesistente mezzo secolo fa». Negli anni Sessanta quasi un terzo degli afroamericani non finiva la media superiore; oggi il 21% ha una laurea, un master o un dottorato. I coniugi Obama sono un campione del nuovo ceto medioalto, proiettato verso posizioni di potere grazie all’istruzione. Prima di loro c’erano stati due segretari di Stato, Colin Powell e Condoleezza Rice. Nella squadra di Obama gli afroamericani occupano posizioni preminenti (Eric Holder alla Giustizia, Susan Rice alla Sicurezza nazionale, Valérie Jarrett tra i consiglieri). Al di là delle statistiche c’è un’evoluzione di costume e di civiltà: negli Stati Uniti del 2013, un politico che osasse pronunciare insulti come quelli rivolti al ministro Cécile Kyenge in Italia, vedrebbe la propria carriera stroncata all’istante da una ripulsa collettiva.
Ma il 16 luglio 2009 Obama si accorse che per lui parlare di razza sarebbe stato sempre rischioso. Quel giorno un illustre accademico di Harvard, l’afroamericano Henry Gates, fu arrestato da una pattuglia di polizia. Il suo reato? Tentava di entrare in casa propria, in un quartiere residenziale nella cittadina universitaria di Cambridge, Massachusetts. Nero, in un quartiere di lusso: quindi sospetto ladro. Quando Obama osò prendere le difese dell’anziano professore, apriti cielo: un presidente nero attacca la polizia per difendere un altro nero… Allo stesso modo, Obama suscitò polemiche quando intervenne sulla vicenda di Trayvon Martin, il ragazzo nero ucciso da un brutale “vigilante”, George Zimmerman, il 26 febbraio 2012 in Florida. «Se avessi un figlio – commentò Obama turbato – somiglierebbe a Trayvon». Una giuria popolare della Florida non ha riconosciuto Zimmerman colpevole di alcun reato. Obama è tornato a parlare di quella vicenda, con alcuni ricordi personali dalla sua giovinezza: gli sguardi insospettiti dei bianchi al suo passaggio, le signore che stringevano la borsa, o chiudevano la sicura dell’automobile. Ancora adesso, dice Obama, ci sono dei tassisti che non mi prenderebbero a bordo, a Washington, se uscissi in incognito dalla Casa Bianca.
C’è stata la velenosa polemica della destra in campagna elettorale: l’accusa a Obama di non essere americano bensì nato in Kenya, una falsità costruita ad arte, un messaggio subliminale per ricordare che con la pelle di quel colore lui non è un “vero” americano. Perfino a New York, la metropoli multietnica per eccellenza, un giudice federale ha riconosciuto che la polizia fa una «selezione mirata per razze», nei suoi controlli. E i neri, pur essendo solo il 14% della popolazione, pesano per il 42% tra i condannati all’esecuzione nel braccio della morte. Intanto la destra trae a modo suo una lezione dalle vittorie elettorali di Obama: in molti Stati Usa i repubblicani varano leggi per ostacolare l’accesso al voto delle minoranze. Il 28 agosto il presidente farà il suo bilancio di cinquant’anni del sogno di King davanti alla nazione, ma per una fascia di americani la sua resterà sempre una voce di parte.


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