“Quelle strutture peggio di un carcere le rivolte provano il fallimento del sistema”

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ROMA — «Quello dei Cie è un sistema estremamente dispendioso, spesso disumano, largamente inefficace. E gli episodi di Gradisca e Crotone sono la tragica conferma di un fallimento che deve indurre a ripensare da capo l’intero sistema. La proposta del ministro Kyenge di ridiscutere la Bossi-Fini può essere l’occasione giusta: quella normativa oltre a essere profondamente iniqua, si è rivelata inefficace perfino rispetto alle finalità di esclusione che intendeva perseguire. È tempo di considerare l’immigrazione come un’opportunità e una ricchezza possibile, non come una minaccia sociale ». Non usa mezzi termini il presidente della commissione Diritti Umani di Palazzo Madama, Luigi Manconi.
Senatore, davvero le condizioni in questi centri sono così terribili?
«Mi limito a due esempi. Sul piano giuridico il centro non è un carcere e i trattenuti hanno diritto di comunicare con l’esterno. Tuttavia,
nella struttura friulana i telefonini sono stati consentiti appena qualche giorno fa e solo grazie all’intervento della deputata Serena Pellegrino. A Crotone, grazie alla gara al ribasso, la spesa quotidiana per trattenuto è scesa a 21 euro: sul piano dei diritti e della condizioni di vita è un disastro».
È solo un problema di costi?
«I Cie sono 13 e le persone lì trattenute sono mediamente un migliaio. Ogni struttura è organizzata in maniera diversa perché non esiste un unico ente amministratore. La gestione viene affidata con gare di appalto vinte riducendo al minimo il costo pro-capite e pro-die. Cifre spesso ridicole che non permettono di rispettare i diritti fondamentali e nemmeno di osservare le linee guida del Viminale. Tanto che in moltissimi centri
si lamentano paurose carenze sanitarie. Anche per questo, con la Commissione stiamo visitando tutti i Cie e il 10 settembre saremo a Gradisca».
Le cronache di questi giorni raccontano anche altri disagi.
«La cosa che più colpisce, parlando le persone trattenute, è la loro difficoltà a capire che cos’è quel posto e perché sono finiti lì. Molti degli “ospiti” (così vengono chiamati, ed è una definizione che suona beffarda) provengono dal carcere e, dopo avere scontato la pena, scoprono di dover subire la sanzione accessoria dell’espulsione. Espulsione che, in realtà, arriva solo per poco più del 40% di coloro che passano per i Cie».
Ma chi sono questi “ospiti”?
«Le persone straniere prive di documenti: chi non ha presentato in tempo la domanda di protezione umanitaria, chi aveva un permesso di soggiorno e l’ha perso perché ha perso il lavoro, chi non è mai riuscito a regolarizzarsi per le più svariate ragioni. La gran parte di essi – ed è ciò che sfugge all’opinione pubblica – non ha commesso alcun reato, bensì solo quello che fino a poco tempo fa era un illecito amministrativo. Per questo oggi si trovano in una struttura che è spesso assai peggiore di un carcere».
Perché?
«L’una accanto all’altra, si trovano sia persone che parlano benissimo italiano e hanno già svolto percorsi di integrazione andati a buon fine, sia chi, da poco arrivato, avrebbe bisogno di essere accolto in strutture capaci di offrire un primo orientamento. All’interno di questi centri quasi mai viene organizzata alcuna attività, con il risultato che il tempo passa e la frustrazione aumenta. Un tempo vuoto, da trascorrere dentro vere e proprie gabbie, dove domina l’incertezza: perché sono qui, quanto rimarrò, dove andrò dopo?».


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