“Pusher asfissiato dai carabinieri dopo l’arresto”

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SANREMO — «Una cosa è certa: qualcuno ha fatto un uso eccessivo della forza. C’è una grossa responsabilità da parte dello Stato. Al di là di quello che il soggetto ha commesso la vita è sacra, ed è una morte di cui lo Stato deve farsi carico e deve chiedere scusa alla famiglia». Il procuratore capo di Sanremo Roberto Cavallone cancella ogni dubbio diplomatico. La morte di Bohli Kayes, tunisino di 36 anni, una moglie italiana, due bambini piccoli, e diversi precedenti per spaccio, è stata provocata da almeno uno dei tre carabinieri della stazione di Santo Stefano che lo bloccarono la notte del 5 giugno, dopo un inseguimento nel comune di Riva Ligure.
“Arresto cardiocircolatorio neurogenico secondario ad asfissia violenta da inibizione dell’espansione della gabbia toracica» ha scritto il medico legale Simona Delvecchio sul referto dell’autopsia. In altre parole, nelle fasi della cattura, mentre Bohli a terra scalciava al punto da ammanettarlo anche alle caviglie, i militari gli hanno schiacciato con forza il torace. Questa è la ricostruzione più probabile, anche se non è escluso che un successivo schiacciamento possa essere avvenuto in auto, nel brevissimo tragitto verso la caserma.
«L’azione — prosegue Cavallone — che ha impedito a Bohli di respirare è avvenuta per un tempo stimato tra un minuto e i 3 minuti, quindi tra il momento dell’arresto e il trasporto dal supermercato dove è avvenuto il fatto alla caserma, all’incirca a 500 metri di distanza».
«La moglie di Bohli è sotto shock, ma l’inchiesta è stata condotta con grande professionalità » dice l’avvocato Paolo Burlo che assiste la donna. I tre carabinieri indagati per omicidio colposo convocati per l’interrogatorio hanno preferito non rispondere. Uno di loro è stato trasferito dopo che è stata intercettata alle poste una lettera con dei proiettili a lui indirizzata.
Ma la morte di Bohli si accompagna a velenosi retroscena. A cominciare da un “corvo”. Alla fine di giugno si parla di una foto su Facebook che ritrarrebbe Bohli a terra, forse appena arrivato in caserma prima che i militi della Croce Verde giungano per soccorrerlo. Sotto la testa una giacca ripiegata, sul volto delle ecchimosi. L’immagine è accompagnata da una didascalia: “Così hanno massacrato il tunisino”. La foto scompare ma il giallo resta. Probabilmente è stata scattata da uno dei tre carabinieri, forse non per denunciare un abuso ma a mo’ di trofeo, stile truppe Usa in Iraq. Però inizia a girare su altri telefonini e qualcuno, scandalizzato, decide di renderla nota.
«L’abbiamo cercata — spiega il procuratore — ma non siamo riusciti a trovarla, ne sono state cancellate tutte le tracce informatiche». Per Cavallone non è un’inchiesta facile. «Sarà un brutto processo…”, dice.
Proprio con i carabinieri del comando provinciale, negli ultimi tre anni, ha rivoltato il ponente ligure con inchieste sulla ‘ndrangheta che hanno prodotto decine di arresti, confische di beni e lo scioglimento di due comuni per mafia. La notte del 5 giugno era a cena con gli ufficiali in occasione della festa dell’Arma. E fu lui a compiere il primo sopralluogo per poi spiegare, il giorno dopo, che non emergevano segni sospetti che facessero pensare ad un’azione violenta. Ma allo stesso tempo incaricava il medico legale dell’autopsia chiedendo la massima attenzione anche ai minimi dettagli. E ora, con le certezze dell’autopsia e i silenzi dei carabinieri Cavallone lancia un appello: «Sicuramente quella notte molte persone hanno assistito all’arresto. Chi ha visto parli».


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