PICCOLA PACE SULLE MONTAGNE

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Grandina sul Canale del Ferro, tra le rocce delle Alpi Giulie, poi giù acqua a camionate, a vagoni, a frustate. La strada per l’Austria si addentra in un fondovalle svuotato di anime, stuprato da svincoli, cave e caserme abbandonate. Fulmini verticali avvertono che qui si moriva di temporali, col ferro dei fucili, dei reticolati e dei cannoni. Folgori da seduta spiritica, da sabba di streghe, da assemblea di anime sul monte Bocken.
“Dopo due giorni di strada ferrata / ed altri due di lungo cammino / siamo arrivati sul Monte Canino / e a ciel sereno ci tocca riposar”.
Il Generale guida canticchiando nel diluvio, è nella valle dei suoi primi comandi da ufficiale, mi notifica che i due giorni di ferrovia sono da Milano a Chiusaforte, ultima stazione prima del fronte, e quelli a piedi sono in una valle detta Raccolana. Col bel tempo saremmo anche noi per quei sentieri, ma oggi non si può. Troppa neve in quota. Cerchiamo un fronte più basso, verso Sella Somdogna, sotto gli strapiombi dello Jôf di Montasio.
Il viaggio cambia andatura, prende velocità. Possiamo farlo perché quassù sono successe, strategicamente, meno cose. In montagna non è l’ecatombe del Carso. Pattugliamo un fronte inchiodato per due anni e mezzo sulle stesse cime, con i due eserciti arroccati in difesa. Guerra di nervi, di cenge, ghiaioni e forcelle. Posti da tiratori scelti, non da assalti alla baionetta.
Val Dogna, budello dimenticato da Dio dove il genio italiano ha tracciato una pazzesca strada militare. Roba del ’16, che fa ancora figura. La stazione di teleferica per Sella Bieliga, dai possenti pilastri, pare il tempio di una civiltà andina piantato tra nubi e paesi di nome Chiutzuquin e Mincigos. Dalla strada una fitta rete di mulattiere raggiunge le creste, ma nulla di carrozzabile consente di proseguire oltre il passo verso la valle “austriaca” — la Sàisera, oggi Italia — per via di una frana che nessuno sgombra. Come se il fronte esistesse ancora.
Al rifugio “Grego” — intitolato a quattro fratelli medagliati nelle guerre d’Italia — si va solo a piedi. Ci rimetto piede dopo 45 anni, ed è rimasto identico, con la bella veranda in legno da “Montagna incantata” di Mann. Rivedo i vecchi inverni, i muri di neve, le slitte, gli alpini coi muli in uscita dalla caserma ex austriaca di Tarvisio. Sensazione che il tempo si sia fermato: ma mi sbugiarda la foresta, raddoppiata in altezza.
Eco di cannonate dalla Madre dei Camosci, il Foronon del Buinz, il Lavinal dell’Orso. Tuoni tremendi, e mitragliate sulla veranda. “Era dura quassù” mormora il Generale. Non gli va che qualcuno consideri questa sull’Alpe “una guerra per signorine”, dove si contemplano le stelle e si fa l’albero di natale col nemico. No, dice. Era dura per il freddo, le attese, le valanghe, la pioggia, le notti di guardia. “Ma almeno — concede — le due parti dividevano gli stessi rischi. In Afghanistan è peggio, perché non c’è fronte. Può ucciderti anche un bambino cui offri una caramella”.

E via verso Ovest, in cerca di sole, sotto il crinale delle Alpi Carniche. Lassù il confine con l’Austria è rimasto lo stesso, segnato da un susseguirsi di praterie di quota con vista che arriva fino al mare. In fondovalle, invece, posti ombrosi già dal nome. Cedarchis, Cercivento, Timau, segnati dal passaggio dei cosacchi — alleati dei tedeschi — nella seconda guerra mondiale. Ricomincia la tempesta di memorie, e il Passo di Monte Croce le riassume tutte: passaggio di legioni romane e barbari invasori, trincee, fortificazioni del Vallo Littorio, tane partigiane, bunker della Guerra fredda. Ogni pietra dice che siamo su un “Limes” millenario.
Il cielo si apre verso il Pal Piccolo, montarozzo con le trincee italiane e austriache vicine fino a dieci metri; il labirinto dei camminamenti ben restaurati svela un’intimità “da pianerottolo” perfettamente leggibile. Ancora oggi senti la voce e persino l’odore dell’Altro.
Lascio il Generale sulla lapide di Ruggero Timeus, irredentista triestino morto su queste rocce smerigliate da soda caustica, e vado da solo in un fischiar di marmotte, sotto grandi manovre di nubi, lungo creste bucherellate da feritoie come asole di una camicia.
Una scaletta di ferro scende alle retrovie austriache.
“Grüss Gott”. Un solitario è sbucato dall’altra parte. “Unglaublich”, rispondo. Pazzesco ciò che abbiamo sotto gli occhi.
E lui: “Wir haben nicht davon gelernt”. Non abbiamo imparato niente.
Solo due parole, per non disturbare la macchina del tempo, e già l’altro scompare nelle nubi, fra mughi e rododendri, sull’orlo di voragini piene di neve sporca. Appena fuori dai reticolati la natura si è mangiata ogni memoria. Fibrillazione di ranuncoli nel vento, rocce muschiate stile Excalibur. A Nord, i pilastri innevati dei Tauri.
La sera giù a Timau, Lindo Unfer, ottant’anni e profilo da aqui-lotto, memoria vivente di queste montagne, narra di piccole paci separate decise fra nemici su quelle cime, fuori dal controllo dei generali.
“I cecchini non davano pace ai nostri. Un morto al giorno, senza che ci fosse scontro. Questo finché un giorno un capitano, esasperato, uscì con un fiasco di vino in mano e gridò che era ora di finirla. Gli altri rimasero sbigottiti e nessuno sparò. Un maresciallo austriaco andò incontro al capitano con un sigaro. Poi tutti abbandonarono le linee per abbracciarsi, e per giorni sul monte regnò una prudente coesistenza”.
Miracoli, ma anche memorie negre. Come quella dei ragazzi fucilati a Cercivento. S’era ordinato un attacco impossibile a una cima austriaca, e metà degli italiani erano rimasti uccisi. Quando i superstiti si rifiutarono di attaccare di nuovo senza una migliore copertura dell’artiglieria, qualcuno gridò alla diserzione e in un processo sommario — le carte compromettenti scompariranno — vennero inflitte quattro sentenze capitali. “Quella fucilazione impressionò molto le nostre valli”, racconta Unfer. “Per anni più nessuno ha voluto falciare quel prato”.
(14 — continua)


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