Peter Handke, immagini dalla lingua

by Sergio Segio | 30 Agosto 2013 6:45

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Come uno scarto, a interrompere il passo di una bibliografia saldamente attestata, negli ultimi anni, sulla distanza romanzesca, Un anno parlato nella notte (traduzione e cura di Elisabeth Zoja, in collaborazione con Antonio Annunziata, con una prefazione di Eva Pattis e una postfazione di Flavio Ermini, ed. Moretti & Vitali, pp. 238, euro 20,00) rappresenta, nel diagramma dell’opera di Peter Handke, il tratto ulteriore di una scrittura diaristica, che va da Il peso del mondo (1977), passa per La storia della matita (1985) e approda Alla finestra sulla rupe, di mattina e altri momenti e luoghi 1982-1987 (1998), inesauribili serbatoi di riflessioni, impressioni e resoconti registrati in quella sorta di introspezione obiettiva che è la tonalità più ricorrente della pur composita cifra stilistica propria allo scrittore austriaco. E però, basta appena sfogliare il volume per domandarsi che tipo di cronista autobiografico sia Handke: riconoscere, infatti, la vena di genere di Un anno parlato dalla notte, non elude il problema formale che pone il suo peculiare diarismo.
Composto da poche stringhe di parole riportate pagina per pagina in doppia cifra – ovvero, anche nella loro trascrizione originale in tedesco – e sempre virgolettate, quasi fossero frammenti di dialogo tra interlocutori assenti, il libro testimonia affioramenti mattutini di brani di sogni, lacerti onirici assemblati in maniera niente affatto casuale, ma tessendo, tra l’uno e l’altro, anche a distanza di molte pagine tra loro, trame sottese la cui ricostruzione è affidata allo stesso lettore che, così non solo entra nella struttura mentale dell’autore, ma ne diventa in misura particolare complice: diventa dunque artefice egli stesso di un falso movimento (per rimandare a un testo precedente di Handke a quest’ultimo molto affine) e di una contemporanea indagine sul vero che travalica il senso immediato affidato alle singole frasi.
In quest’ottica, la scelta del parlato per cogliere frammenti rubati al sogno – o a una sua intempestiva traduzione nel linguaggio quotidiano, diurno – ha la funzione di una membrana che unisce due dimensioni antitetiche ma complementari, simile a un diaframma che, nel tempo di una frazione di secondo, si apra su un’immagine per subito richiudersi lasciando impresso, sulla pellicola, il mistero di quell’immagine, il suo enigma.
Quale voce è, dunque, quella che parla in un libro il quale è già nel titolo un’evocazione (facilmente vengono alla mente due dei principali romanzi di Handke, ossia Il mio anno nella baia di nessuno e La notte della Morava)? E quale notte abita, durante quale anno? A decenni di distanza dall’esordio fragoroso degli Insulti al pubblico (1966), sopravvissuto a equivoci di ogni genere, riconoscimenti internazionali e scandali politici, Handke non smette di sperimentare, andando alla ricerca della forma migliore per il contenuto di una zona franca, una zona di confine tra l’interno e l’esterno di se stesso, e cioè del personaggio-uomo.
Eludendo qualsiasi facile interpretazione psicologica, l’autore di Infelicità senza desideri dà così coerentemente corso alle premesse della sua visione artistica: lui stesso, infatti, fornisce la migliore risposta agli interrogativi posti da questo carnet di appunti che è Un anno parlato nella notte (tutt’altro che il capitolo accessorio di una rigorosa parabola etica ed estetica) e ce la fornisce nella laudatio del premio Petrarca riconosciuto nel 1988 al Philippe Jaccottet: «Perfettamente celato nella lingua, egli è il terzo invisibile e insegna ai lettori, senza che sia sua intenzione, sulla scorta dei problemi di cui parla perfettamente e delle domande che così chiaramente pone, che cosa è l’artista o, perché no, il poeta quando svolge il suo lavoro: l’uomo che segue le regole, senza sbalzi d’umore e senza capricci».

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