Per Manning “solo” 35 anni

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NEW YORK. IL SOLDATO Bradley Manning sta seduto sulla punta della sedia, le mani intrecciate sul banco, l’espressione del viso bloccata in una smorfia immutabile.

NELL’AULA della corte marziale di Fort Meade ascolta per meno di due minuti, alle dieci del mattino americane, il giudice Denise Lind leggere la sentenza del suo destino: 35 anni di reclusione e congedo con disonore dall’esercito. Lui, l’uomo che nel 2010 ha passato a Wikileaks oltre 700mila documenti coperti da segreto militare sulle guerre in Iraq e Afghanistan, non sposta un muscolo del viso, soltanto stacca e riannoda le mani, come in una sorta di piccolo applauso, quasi un sospiro di sollievo. L’accusa aveva chiesto 60 anni, sino ad un mese fa rischiava l’ergastolo e prima ancora la pena di morte se fosse passata la teoria di “aver aiutato il nemico con le sue azioni”.
Adesso gli anni sono 35 e con un po’ di calcoli giuridici (tra detenzione già pagata e sconti futuri) è facile intuire che tra 9 potrà essere fuori in libertà vigilata o con altri tipi di permessi. Dietro di lui piangono la zia e la sorella. Gli agenti lo scortano fuori dal tribunale e i suoi sostenitori urlano: “Sei un eroe, ti amiamo”. Gli uomini e le donne che stanno davanti alla base in questo piccolo paesino del Maryland, come racconta il New York Times, sono i più tristi per l’esito finale del processo: “E’ assurdo, abbiamo assistito ad una farsa della giustizia”, ripetono. Festeggia invece Wikileaks. Il sito di Julian Assange è tra i più rapidi a commentare la notizia e non ha dubbi: “E’ una vittoria strategica per tutti quelli che hanno a cuore la verità”. Poi la portavoce del movimento, Kristinn Hrafnsson, alla tv islandese dirà: “E’ una sentenza terribile, hanno punito più lui di chi ha commesso i crimini di guerra”.
Il legale di Manning parla in conferenza stampa, legge una dichiarazione del suo assistito, dove l’ex soldato ripete di aver agito “per amore del mio Paese e senso di dovere verso gli altri”. E poi annuncia che chiederà la grazia al presidente Obama: “Se lei respingerà la mia richiesta sconterò la condanna sapendo che talvolta si deve pagare un prezzo alto per vivere in una società libera”. Clemenza che vogliono anche Amnesty International e altre organizzazioni in difesa dei diritti civili: “E’ una vergogna, bisogna rimediare a questo clamoroso errore”, scrivono nei vari comunicati diversi negli aggettivi ma uguali nei toni. E anche Mosca, divisa in questi giorni dalle vicende sul caso Snowden (l’uomo che rivelato altri segreti, quelli della Nsa) si prende la sua rivincita: “E’ frequente ascoltare da parte degli americani critiche dirette verso le sentenze dei tribunali di altri Paesi, ma quando sono in gioco i loro interessi la giustizia statunitense prende, come nel caso di Manning, una decisione severa e ingiustificata, senza alcun rispetto per i diritti umani: in questo campo non posso dare lezioni a nessuno”, spiega un comunicato del ministero degli Esteri.
L’avvocato Coombs resta uno dei vincitori della giornata. La sua strategia ha funzionato. Prima ha giocato la carta del soldato “preoccupato di quello che vedeva attorno”, poi ha durante il dibattimento ha descritto Manning “isolato, impaurito, spaesato e sotto stress dentro l’inferno di Bagdad”. Un paio di settimane fa le scuse ufficiali per “aver recato un danno alla nazione”. Tutte attenuanti che la corte ha accolto. “Alla lettura della sentenza ho cercato di consolarlo, di tirargli su il morale”, dice il legale. Bradley lo guarda, stringe lo sguardo in una fessura dentro gli occhialetti rotondi da bravo ragazzo e lo tranquillizza: “Hai fatto tutto quello che era possibile, grazie per tutto”. Ora rimangono gli slogan dei suoi sostenitori, che suonano come una promessa: “La battaglia continua”.


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