Orgoglio vegetariano

by Sergio Segio | 5 Agosto 2013 6:56

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Diventeremo tutti vegetariani? Pare di sì, almeno secondo una ricerca dello Stockholm International Water Institute, resa nota dal
Guardian giusto un anno fa. Il calo delle risorse idriche e l’overbooking demografico del pianeta ci costringeranno, volenti o nolenti, a dare l’addio a salsicce e costolette. Cambiare dieta ridurrebbe il consumo d’acqua restituendo all’agricoltura immense estensioni di terra. Insomma, meno bistecche uguale più frutta e verdura per tutti. Sarebbe d’accordo anche Platone che nel secondo libro della Repubblica mette a confronto il filovegetariano Socrate e il carnivoro Glaucone. È inutile dire che Socrate ha la meglio. E con argomenti simili a quelli degli studiosi svedesi. Nella città ideale, dice il filosofo del conosci te stesso, si vivrà in letizia mangiando cereali, legumi, miele, frutta e verdura. Niente più guerre espansionistiche e niente spargimento di sangue innocente. Portando a casa un triplo risultato. Politico, dietetico e soprattutto etico. Deve pensarla così anche quel sei per cento di nostri connazionali che, secondo un recente sondaggio Eurispes, ha già scelto di rifuggire le tentazioni della carne. La stragrande maggioranza lo fa per amore degli animali, il resto per ragioni di salute.
E non è un caso che siano soprattutto le donne più alfabetizzate a convertirsi alla proteina non violenta.
In realtà l’opzione erbivora è da sempre un’obiezione di coscienza alimentare. E le sue ragioni sono troppo complesse e nobili per essere solo fisiologiche.
Homo edens infatti non è né erbivoro né carnivoro per natura. Ma onnivoro, per capacità e per necessità. Il che lo ha reso adattabile a tutti gli habitat. A noi dunque la scelta di cosa mettere nel piatto.
La pratica vegetariana è dunque il controcanto nutrizionale di una filosofia. È una moratoria alimentare in nome dei diritti del vivente. Così la vedeva Pitagora, che nella storia dell’Occidente è senza ombra di dubbio il padre nobile della green diet.
Al punto che fino all’Ottocento, qualunque regime privo di carne si chiama semplicemente pitagorico. E il primo ricettario veggie, scritto da Vincenzo Corrado nel 1781, ha il titolo eloquente Del cibo pitagorico, o sia Erbaceo, principalmente per uso di Nobili, e letterati.
Come dire mangiare light per anime belle.
Di fatto, con l’inventore delle tabelline il cibo diventa un teorema politico di opposizione, una contestazione radicale delle pigre abitudini della maggioranza silenziosa. Per una doppia ragione. La prima è che anche gli animali hanno l’anima e quindi cibarsene è come mangiare i nostri fratelli. La seconda invece è decisamente antagonistica. Nutrirsi in modo diverso serve a sentirsi e a mostrarsi diversi, spesso a sottolineare la propria superiorità rispetto alla gente comune.
Oggi parleremmo di controcultura alimentare. Anche se, visti con gli occhi di ora, gli antichi cittadini della polis di carne ne vedevano ben poca e quasi esclusivamente nelle occasioni festive, quando si consumavano gli animali sacrificati agli dei. I Greci, che si definivano per antonomasia mangiatori di pane, consideravano cereali, olio e vino i simboli stessi della civiltà umana. Forse non è un caso che nel Mezzogiorno d’Italia, in quella che fu la Magna Grecia, ancora oggi la carne resti sostanzialmente un cibo festivo. E che il mangiare quotidiano sia in buona parte vegetale. Nel sistema alimentare di quelli che furono prima mangiafoglie, poi mangiamaccheroni – per dirla con Emilio Sereni – la fiorentina è considerata tuttora un’iperbole suntuaria, una sanguinolenta una tantum.
E adesso proprio cereali, olio e vino stanno decretando il successo planetario della moderna dieta mediterranea che – scrive l’antropologa Elisabetta Moro li trasforma in alimenti simbolo di sostenibilità ambientale, di un rapporto incruento con la natura e con le specie.
E che la carne abbia in sé qualcosa di cruento lo dice la parola stessa. Che deriverebbe da una radice kruche ha a che fare con la crudezza, la crudeltà, la durezza, la morte. Un’etimologia che mette d’accordo le fedi vegetariane antiche e moderne. Dai Pitagorici agli Gnostici, dai Catari alle femministe come Carol Adams. Che nel suo best seller The sexual politics of meat (Le politiche sessuali della carne) considera gli animali, esattamente come le donne, vittime di un dominio maschile che ha il suo emblema nel consumo di carne. E dunque rifiutare tartare e barbecue significa rimettere in discussione i fondamenti del patriarcato.
Che, facendo della donna la preda dell’uomo cacciatore, finisce per alimentare un immaginario porno-gastronomico che assimila parti del corpo dell’animale e parti del corpo femminile. Così il dominio sulle une diventa lo specchio del dominio sulle altre. Come dire che la virilità ha sempre voglia di carne.
Proprio per questo nel medioevo i soldati disertori e i codardi venivano condannati a un regime esclusivamente vegetariano. Perché si erano comportati da femminucce e pertanto non erano più degni di mangiare cibo da veri uomini. Questo circolo vizioso tra sesso, violenza e carne, che attraversa la storia e le culture, trova conferme trasversali e spesso inattese. Nella città thailandese di Phuket, mecca del turismo sessuale, ogni anno si celebra una cerimonia aperta anche ai turisti, in cui per almeno tre giorni si mangia verde e ci si astiene dal sesso. Un modo per redimere quella colpa epidemica che la carne si porta dietro da sempre.
Lo sapevano bene monaci, eremiti e asceti che, durante il medioevo barbarico, per distinguersi dai mangiatori di carne venuti dal nord rilanciano alla grande il vegetarianesimo. Ancora una volta per ragioni morali più che nutrizionali. In molti conventi ci sono addirittura due cucine, una grande per le verdure e l’altra piccola per le carni. Per non confondere il puro e l’impuro.
In fondo questi buoni cristiani erano meno lontani da Pitagora di quanto credessero. Perché avevano in comune l’afflato verso gli esseri del creato che è il vero filo rosso che unisce i vegetariani di ieri e di oggi. Da Plutarco, convinto che l’amore per gli animali educhi gli uomini alla pietà verso gli altri uomini, a Percy B. Shelley secondo il quale mangiare carne minaccia la quiete del consorzio umano. Fino al veggie pride di Lisa Simpson. Punta avanzata di quel pitagorismo globale che ormai si rifiuta di mettere ketchup sui sensi di colpa.

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