Ora tremano India e Brasile capitali in fuga, il Pil si pianta

by Sergio Segio | 21 Agosto 2013 7:10

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NEW YORK — Crollano la rupia indiana e quella indonesiana, precipitano la lira turca e il baht thailandese. Le nazioni emergenti tentano di correre ai ripari con misure drastiche, c’è chi impone restrizioni valutarie (New Delhi), e chi alza i tassi d’interesse (Ankara), ma le fughe di capitali continuano. Per chi ha memoria, il precedente più inquietante è il 1997. Quella di 16 anni fa venne chiamata “la crisi asiatica”, fu in realtà il primo sussulto di una serie di tempeste globali: dapprima le fughe di capitali dai dragoni dell’Estremo Oriente, poi vennero la bancarotta della Russia, il
crac di un grosso hedge fund americano (Ltcm), la bolla del Nasdaq “bucata” dalla prima battuta d’arresto della New Economy (2000). Oggi l’economia mondiale è perfino più interconnessa di allora. Quali ripercussioni potrà avere su di noi, la brutale frenata dei Paesi emergenti? Siamo forse dinanzi a una svolta repentina, che quasi nessuno aveva previsto. Il paradigma economico degli ultimi anni vedeva nei Brics (Brasile Russia India Cina Sudafrica) la nuova locomotiva della crescita mondiale: potrebbe essere già obsoleto.
Le turbolenze che imperversano su tutte le economie emergenti, inclusa l’America latina (vedi le tensioni sociali in Brasile) hanno una causa comune: la politica monetaria delle due maggiori economie mondiali, Stati Uniti e Cina. L’influenza dominante resta quella americana. Non a caso, i primi segnali di una “tempesta perfetta” in India si manifestarono subito dopo l’annuncio di una svolta da parte della Federal Reserve. La banca centrale americana a maggio ha preso atto che la grande crisi è davvero alle nostre spalle. La ripresa Usa compie ormai quattro anni, e da tre anni è una ripresa vera, che “si sente”, cioè ha effetti benefici sull’occupazione. In queste circostanze la Fed non può prolungare indefinitamente quella che è stata una terapia anomala per tempi eccezionali: l’acquisto massiccio di bond sui mercati, effettuato stampando moneta al ritmo di 85 miliardi di dollari al mese. Dunque, all’origine c’è una buona notizia – la crescita americana – e una conseguenza inevitabile, cioè la fine della “manna monetaria”. La seconda economia
mondiale a sua volta ha intrapreso una correzione di rotta: dopo anni di boom, la Cina ha cominciato a curare la sua febbre speculativa. La banca centrale di Pechino tenta di fare pulizia in un sistema finanziario che nasconde “bolle pericolose” (sopravvalutazione del mercato immobiliare, prestiti “politici” per progetti industriali e infrastrutturali faraonici). Xi Jinping, a pochi mesi dall’arrivo al vertice, ha iniziato le pulizie di casa e probabilmente anche questo era inevitabile. Dopotutto, se si calcolano i prestiti privati accumulati dalle imprese e dalle famiglie, il debito cinese è il 200% del Pil. Ma queste due svolte avvenute a Washington e a Pechino hanno conseguenze dagli esiti incerti, e difficilmente governabili.
Finché la “zecca” della Federal Reserve inondava l’economia Usa di dollari, e al tempo stesso manteneva i tassi d’interesse vicini allo zero, una parte di questa liquidità andava a caccia di rendimenti alti all’estero. Li trovava nelle nazioni emergenti. I Brics e altri Paesi asiatici, africani e latinoamericani hanno potuto finanziare la loro crescita con capitali abbondanti. Ora il flusso si inverte, i capitali esteri tornano a casa. Li attira la prospettiva di un rialzo dei rendimenti Usa, e anche di una imminente ripresa dell’economia europea. Il fuggi fuggi è diventato precipitoso. L’India, secondo colosso emergente con 1,2 miliardi di abitanti, è stata costretta a imporre restrizioni sulla quantità di valuta esportabile. Dalla Thailandia alla Malaysia, la crisi delle valute non risparmia nessuno. In parallelo, la crescita di quella parte del mondo rallenta. La Cina è passata dal 10% al 7,5% di aumento del Pil in pochi anni; l’India dall’8% scende al 4,5%; il Brasile è quasi alla crescita zero. Sono frenate che forse il governo di Pechino può pensare di controllare, con le leve del capitalismo di Stato e di un apparato autoritario; ma in Paesi più democratici come India, Brasile e anche Turchia, la tensione sociale è già esplosa da mesi. I più fragili sono quelli come l’India che hanno una bilancia commerciale in deficit. Ma anche le nazioni che tradizionalmente vantano un attivo commerciale grazie all’export di materie prime sono danneggiati dalla frenata dei loro mercati di sbocco (Cina in testa). Tra questi ultimi c’è perfino l’Australia.
Il possibile cambio di paradigma globale accentua l’agitazione degli investitori. Ieri Wall Street si è ripresa, ma solo per effetto di un “ritorno all’ovile”, l’afflusso di capitali che cercano sicurezza in un’economia solida come quella americana. Tutti i grandi investitori mondiali stanno riducendo la loro esposizione verso i Paesi emergenti, per paura che la fase dell’iper-crescita si stia chiudendo, e lasci il posto a un periodo tempestoso. Devono tenerne conto anche quelle multinazionali occidentali che si erano ri-posizionate per trarre il massimo vantaggio dai mercati trainanti dei Brics. Le nazioni emergenti scoprono di avere vissuto in un’epoca di prosperità troppo facile, con il credito abbondante che ha funzionato come una droga, rinviando le riforme necessarie.

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