OBAMA PRIGIONIERO DELLA SUA LINEA ROSSA

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La deterrenza è intimamente legata alla credibilità della minaccia. Per questo Washington mette in campo quella che viene definita «opzione Kosovo». Ma i bombardamenti decisi allora da Clinton provocarono in seguito la sconfitta di Milosevic. Oggi la Casa Bianca non è affatto convinta degli equilibri che potrebbero nascere dal tracollo di Assad. Paradossalmente ma non troppo, in riva al Potomac si preferirebbe, un’opzione Sudan: l’attacco missilistico ordinato dallo stesso Clinton, come rappresaglia per gli attentati qaedisti alle ambasciate statunitensi in Tanzania e Kenya, contro la fabbrica farmaceutica di Al Shifa, sospettata di produrre gas nervino. Un raid che andrebbe a colpire siti sensibili ma non sarebbe determinante per la caduta del regime.
La riluttanza di Obama a un intervento in Siria non è data, infatti, solo, dalla scarsa propensione a coinvolgere gli Stati Uniti in una nuovo conflitto. Certo, Obama ritiene che la promessa autosufficienza energetica americana renda il Medioriente meno centrale che in passato. Ma il nodo è che dietro all’opzione militare, sollecitata dagli alleati, appare debole il contenuto della politica destinata a sorreggerla. Von Clausewitz riteneva
la guerra la «continuazione della politica con altri mezzi», ma un intervento che non abbia alle spalle una politica che faccia da presupposto all’uso della forza rischia di non prefigurarne un nuovo assetto.
È in questo vuoto strategico, che i comandi militari Usa temono, che si prepara l’intervento. Nel frattempo, gli iraniani ammoniscono che un attacco costituirebbe l’oltrepassamento della loro linea rossa; e il ministro dell’intelligence siriano avverte che un raid trasformerebbe il Medioriente in una sfera di fuoco. Minacce che evocano il blocco di Hornuz, terrorismo su vasta scala, la ripresa economica mondiale soffocata in culla dall’impennata dei prezzi energetici. Guerra piscologica, ma non solo.
È, dunque, un classico dilemma tragico quello a cui si trova davanti Obama. L’attacco alla Siria rischia di produrre un effetto domino incontrollabile. A partire dal Libano. Gli attentati di questi giorni, prima contro i quartieri sciiti della capitale, poi contro quelli sunniti di Tripoli, prosecuzione del conflitto iniziato con l’intervento dei sunniti libanesi a fianco dei loro confratelli siriani e con l’arrivo nel campo di battaglia siriano delle milizie armate di Hezbollah, mostrano come il «Paese dei Cedri» sia già retrovia della guerra civile siriana. La ripresa dello scontro libanese avrebbe come protagonisti attivi anche l’Iran sciita e l’Arabia Saudita sunnita, rispettive potenze protettrici dei due gruppi confessionali nazionali. A sua volta, il coinvolgimento iraniano andrebbe a innestarsi sull’annosa vicenda della partita nucleare con Israele. Che nella circostanza vede con favore la possibilità di infliggere un duro colpo a Teheran e ai suoi alleati.
Scenario ulteriormente complicato anche dalle vicende egiziane. La decapitazione dei Fratelli Muslmani si riverbera anche in Siria, dove la Fratellanza locale costituisce il nucleo centrale dell’opposizione armata a Assad. Il duro scontro tra Turchia e Arabia Saudita sul golpe egiziano e sulla repressione che ne è seguita, ha riflessi sugli equilibri interni del fronte sunnita. Erdogan e l’Akp ritengono che i sauditi abbiano giocato un ruolo decisivo nella caduta di Morsi, appoggiando i salafiti di al Nour e proponendosi come finanziatori sostitutivi degli occidentali: mossa che ha indebolito la capacità di Usa e Ue sui militari di Al Sissi. Conto che gli islamisti turchi, legati alla Fratellanza, presenterebbero sul tavolo siriano dopo la caduta di Assad. Il tutto mentre in siria cresce la forza del fronte jihadista e qaedista, rafforzato dai mujahidin affluiti dall’Iraq.
È in questo complesso teatro che un Occidente incerto sul che fare, potrebbe lanciare i suoi missili. Poco strategici.


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