NELLE TRINCEE DELLE DOLOMITI
PICCOLE DOLOMITI. Alle sette meno un quarto la Luna tramonta dietro il Carega imbiancato. Neve fresca copre i monti e le praterie del Passo di Campogrosso, dove i camosci sono scesi bassi a battagliare per le femmine e i corvi veleggiano controvento. In bilico fra il sole pieno del Trentino e la veneta Recoaro, ombrosa nella forra delle cento sorgenti, corse uno dei fronti più immobili della Grande guerra. Una linea che resiste da secoli, inchiodata sulla frontiera tra Venezia e gli Asburgo.
Traversata verso una cima chiamata Slavazzi con Franco Perlotto, alpinista giramondo, e il mite custode del rifugio, Davide Ferro. Vista immensa. Da un lato la conca di Schio pisciatoio di Dio, la pianura veneta, il mare. Dall’altra il fronte di Nordovest, con l’Adamello stracarico di neve. Camminiamo in un disegno di trincee simile alla bordura di una giacca, fra cuscini di erica, tappeti di neve fresca e nidiate di primulacce nane, sotto il grido ripetuto del cuculo.
«Si sono studiate troppo le battaglie — spiega Davide — e si sa poco o nulla di questi fronti secondari, delle popolazioni deportate e dei loro morti». Qui sul lato italiano i paesi pullulavano di soldati e materiali, e specie dopo la Strafexpedition divennero un gigantesco cantiere. Si fortificarono le creste, si costruirono centinaia di chilometri di strade, col risultato che il Limes fra “todeschi” e veneti si rafforzò, divenne ferro e cemento anziché spezzarsi.
Sul passo — quota 1464 — nella neve segnata da tracce di lepri, ecco i cippi con data 1751, robusti tronchi di piramide col leone della Serenissima e l’aquila austriaca dall’altro lato. C’erano stati dei morti, tre secoli fa, per il controllo dei pascoli, e l’imperatrice Maria Teresa, d’intesa col Doge, decise di sedare le guerre tra valligiani, tracciando una linea netta. Così netta che oggi, anche se sul versante Nord l’Austria non c’è più, i trentini della Vallarsa dicono «andare in Italia» il viaggio sull’altro versante, come se la frontiera esistesse ancora.
E in effetti c’è, a ben guardare. La strada per scendere sul versante “asburgico” esiste ed è bella asfaltata, ma i frontalieri di Recoaro, per percorrerla, devono chiedere un “pass” che i trentini concedono con avarizia per asseriti “motivi ambientali”. Gli “italiani” protestano, ma gli “austriaci” ribattono che quelli dell’altra parte sono una banda di bracconieri (è arcinoto che metà dell’elettorato di Recoaro è controllato dai cacciatori) senza regole pronti ad avventarsi sulla fauna trentina. Risultato: strada chiusa a senso unico, con quelli della Vallarsa che entrano in Veneto per la via breve di Campogrosso, e i veneti che per scendere su Rovereto devono sorbirsi il periplo del Pian delle Fugazze.
«Dal coston della Sisilla / canta un merlo inamorà, ghe risponde ‘na colomba / dal Fumante nuvolà».
Gocciolio di neve sciolta sotto il bastione cantato da Bepi De Marzi e foracchiato di postazioni militari. Qui Perlotto, a quindici anni, saliva per le prime arrampicate e, siccome era in bolletta, dormiva nelle caverne di guerra o nelle trincee. Quando il sole o la luna sparivano dietro i monti, sentiva come un grido, e per un attimo il velo tra vivi e morti si squarciava svelando delle presenze. Sotto le stelle qualche ombra
incespicava tra i massi, ombra di ragazzi infreddoliti che avrebbero voluto parlargli — dirgli che con la guerra Dio non c’entrava, quella era una porcata degli uomini — ma subito erano rapite dal silenzio della notte.
Sera di stelle da “Benetti” a Costabissara, ai piedi delle colline. Forse il tempo si mette al bello, la linea delle cime di guerra ci sovrasta come un merletto. Anche Romeo, il paròn della locanda, è figlio di quella linea d’ombra. Mi mostra una foto dell’anno 1900 col bisnonno, Marco Ambrosini detto Bufera, ritratto con moglie e dieci figli davanti alla sua osteria Ghèrtele, sull’altopiano di Asiago, a uno sputo dal confine austriaco. Salgo in camera un po’ ciucco e trovo la posta intasata di messaggi. Lettori commossi che raccontano di nonni, bisnonni, talvolta di padri. Storie, infinite storie. L’Italia è impregnata di Grande guerra, e io non so come difendermi dal “troppo” in questo viaggio della memoria.
Da Padova Luisa Terrin scrive del fratello di sua nonna Luigina morto precipitando in un burrone dell’Altissimo nell’aprile del ’18. Una settimana dopo si presenta alla porta di casa il tenente Gaetano Chemello per porgere le condoglianze, ma in quel momento Luigina è sola in casa e non apre perché «non sta bene». Qualche giorno dopo lei entra al Santo di Padova, vede un uomo inginocchiato su un altare e pensa: ecco, quello deve essere un uomo buono, vorrei sposare uno così. Qualche giorno dopo, la stessa persona si presenta alla porta. È lui, il tenente Chemello, che finalmente può porgere le condoglianze, e un anno dopo si sposa la Luigina.
Da Malè, in Trentino, mi cerca Teresa Pesci per dirmi di aver trovato dopo novant’anni il luogo della morte di zio Angelo, il monte Zebio, e mi passa, meticolosamente trascritto, il testo della sua ultima lettera, del 28 maggio 1916. «Vengo con questa mia per farti noto che sono in zona di guerra… sono in un posto dove si sente il rombo del cannone e bisogna sempre farsi coraggio… Piove sempre, perciò si fa una vitaccia molto dura… Se parto per andare a battermi ti avviserò… ». È solo un frammento di una corrispondenza sterminata. Quattro miliardi di lettere per quattro milioni di soldati.
E ancora Alessandro Anderloni, che scopre nel cimitero di casa, sui monti Lessini, la tomba di un uomo col suo stesso nome e cognome che fu accoppato dai Carabinieri dopo una fuga dal fronte di Asiago per dare una mano alla famiglia. Il paese volle aggiungere anche lui all’elenco dei caduti sul monumento in piazza, e siccome i fascisti lo scalpellarono via negandogli il diritto alla memoria, l’Alex di oggi s’è sentito in dovere di rappresentare la storia del suo omonimo assieme agli abitanti del paese, per cancellare quell’etichetta di infamia.
La mia casella è piena. Novanta, forse cento lettere. Sento che mi sto perdendo.
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