L’uomo che sussurrava ai cavalli ora si batte per salvarli dagli indiani
Per questo la legge federale degli Stati Uniti definisce i cavalli selvaggi «simboli viventi dello spirito pioneristico del West». Oggi quei meravigliosi animali rischiano di nuovo. Li vogliono far fuori perché ce ne sono troppi. Quasi 75 mila esemplari che hanno invaso la mitica Navajo land. E, infatti, a chiedere di abbatterli riaprendo i macelli non è l’avido uomo bianco, l’erede di chi sterminava i bisonti. No, questa volta sono i nativi. Gli indiani. Sì i Navajo, impegnati in una battaglia che ha attirato ecologisti, politici e una stella di prima grandezza, Robert Redford.
La nuova battaglia sulla frontiera si è accesa per ragioni economiche. I Navajo del New Mexico — ma in altre parti degli Usa ci sono anche i rancheros — si lamentano delle orde selvatiche. I cavalli — affermano — divorano 8 chilogrammi di foraggio al giorno e bevono 18 litri d’acqua. Conti alla mano, chi ha le terre sostiene di non farcela: distruggono, fanno danni, mangiano tutto. E gli indiani suggeriscono che siano abbattuti nei macelli.
La richiesta dei Navajo, presentata in forma ufficiale, ha provocato la reazione furibonda degli ecologisti e di chi ha a cuore la sorte dei meravigliosi «selvatici». L’ex governatore del New Mexico, Bill Richardson, un democratico dal volto pacioso ma spesso protagonista di missioni in posti difficili si è schierato contro. Al suo fianco un altro che ha il verde nel cuore. Robert Redford. L’attore-regista è uno di quelli «impegnati». Potete mai pensare che il protagonista de «L’uomo che sussurrava ai cavalli» tradisca i Mustang? Figuriamoci.
La difesa degli animali, però, non può dimenticare le esigenze degli uomini. Richardson ha riconosciuto che bisogna scovare proposte alternative. Ad esempio individuare aree remote dove spingere i cavalli. Oppure catturarne parecchi e darli in adozione. O ancora, sterilizzarli. Il problema è che ogni scenario ha i suoi costi e tanti pensano che mandarli al macello sia la cosa più conveniente. Anche se i centri specializzati sono chiusi da tempo in quanto il mercato americano non consuma carne di cavallo e ci sono nodi burocratici da sciogliere. Intanto le mandrie crescono e i Navajo piangono. Non tutti gli indiani, però, sono d’accordo con la linea dura. Per questioni emotive, culturali e storiche. Il risultato è un intrecciarsi di azioni legali, ricorsi, iniziative, con richiami alla «sovranità» e al rispetto dei diritti.
Richardson e Redford hanno creato una fondazione nella speranza di raccogliere consensi. Poi sono riusciti a bloccare, ottenendo un’ingiunzione di un giudice, la riapertura di un impianto per la macellazione pronto ad entrare in azione. La ditta, basata a Roswell, in New Mexico ha fatto ricorso contro il Dipartimento dell’Agricoltura sostenendo di avere le carte in regola. Un altro duello si svolto in un tribunale del Missouri. Sempre la magistratura ha fermato un sito disposto a «trattare» carne di cavallo con una strana motivazione: i lavori potrebbero contaminare il sottosuolo. C’è poi una questione sui fondi necessari a finanziare le ispezioni nei macelli, pratica che è nelle mani del Congresso.
L’esito finale è una guerriglia a colpi di codice che esaspera i protagonisti e che minaccia di rendere il confronto piuttosto lungo. Ben Shelly, presidente dei Navajo, si è rivolto direttamente a Redford: «Venga qui così potrà rendersi conto di persona di quello che accade e magari ci potrà aiutare a risolvere questo problema». Per ora l’attore non sembra aver risposto all’invito, ma in tanti si aspettano di vederlo lungo i sentieri selvaggi del New Mexico.
Guido Olimpio
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