L’Italia delle coste perdute
L’Italia è uno stivale che poggia sulla sabbia. Instabile, volubile, in balia dei venti e delle onde. Lasciato a se stesso, verrebbe sbocconcellato nel giro di qualche decennio. Il 42 per cento dei quasi 4mila chilometri di coste basse della penisola è infatti in erosione. Il mare, pazientemente, sta spolpando le spiagge denutrite di sabbia e zeppe invece di cemento. Alle foci dei grandi fiumi lo spazio per lettini e ombrelloni arretra anche di 10 metri l’anno. Ecco allora che i primi stabilimenti in Salento quest’estate hanno dovuto rinunciare alla stagione per mancanza di spiaggia. A Venezia si pensa di pompare acqua nel sottosuolo: tentativo estremo di rallentare lo sprofondamento della costa. Lazio, Veneto ed Emilia Romagna hanno iniziato da qualche anno a dragare sedimenti dal fondo del mare, fino a 130 metri di profondità, caricandoli sulle navi per poi “spararli” sulle coste. Attorno a Minturno le mareggiate invernali del 2013 hanno demolito alcune case abusive. Nel golfo di Salerno, proprio in queste settimane, è in discussione il “Grande progetto di difesa del litorale”.
Settanta milioni di euro erogati dalla Commissione Europea per costruire 45 pennelli (moli perpendicolari alla riva realizzati con scogli artificiali) di 150 metri l’uno, lungo oltre 30 chilometri di costa dal porto di Salerno fino ad Agropoli, per un totale di un milione di tonnellate di massi da gettare in mare. L’obiettivo è frenare un’erosione che dagli anni ’50 ha fatto arretrare la foce del Sele di 200 metri, rubando alla costa 13 milioni di metri cubi di sabbia. Gli ambientalisti a Salerno protestano, ma la scadenza dei termini di Bruxelles è vicina. Difficilmente il progetto verrà stravolto in extremis.
L’Italia, paese nel quale il 30% della popolazione vive nel 13% del territorio prossimo alla costa, e dove fin dai tempi del fascismo l’accoppiata lettini e ombrelloni è inscindibile dall’immagine del-l’estate, si ritrova oggi a lottare per difendere l’oro dei suoi litorali: quella sabbia di cui le foci sono sempre più avare. Se un metro quadro di spiaggia balneabile vale tra i 100 e i duemila euro all’anno, negli ultimi 50 anni del ’900 onde e mareggiate hanno cancellato 5 chilometri quadrati di costa, e un altro chilometro quadrato è sparito nei primi anni del nuovo secolo, secondo i calcoli fatti dall’Ispra (Istituto superiore per la ricerca e la protezione ambientale).
Lo stivale non è una delle aree più martoriate dall’erosione (l’80% delle coste mondiali è colpito dal fenomeno), però è uno dei Paesi del mondo in cui si interviene di più. Pennelli, scogliere aderenti, scogliere parallele, scogliere sommerse, isole artificiali: sono 9.650 le strutture fisse realizzate in poco più di un secolo di ingegneria costiera italiana. Ad Alassio hanno installato un sistema di drenaggio tanto complicato quanto poco risolutivo (ha funzionato tra il 2004 e il 2005), composto da tubi che passano sotto alla spiaggia, raccolgono l’acqua del mare nel momento in cui investe il litorale e impediscono che nel suo rifluire l’onda porti via del materiale dalla spiaggia.
Dagli anni ’70 a oggi 15 milioni di metri di cubi di sabbia sono stati prelevati dalle cave nell’entroterra e usati per rimpolpare gli stabilimenti balneari. Dal 1994 (il primo esperimento a Ostia) si è imparato a ricavare i sedimenti anche dal fondo del mare. E altri 20 milioni di metri cubi sono stati dragati dalle navi e riversati sulle spiagge turistiche, la maggior parte dei quali fra Lazio, Emilia Romagna e laguna di Venezia. Ma di fronte all’inesorabile regolarità delle onde, quella di difendere le spiagge sembra una fatica di Sisifo. Le stesse barriere fisse, che sembrerebbero una soluzione definitiva, hanno un difetto. «Proteggono la spiaggia dall’erosione nel punto in cui vengono installate. Ma peggiorano le cose nel tratto di costa adiacente» spiega Enzo Pranzini, il professore dell’università di Firenze che da 35 anni studia la salute delle coste italiane e che con Allan Williams ha da poco dato alle stampe il libro-atlante “Coastal Erosion and Protection in Europe”. Come in un domino, una scogliera artificiale deve dunque essere affiancata da una seconda scogliera artificiale. Risultato: a Marina di Pisa per un chilometro di costa sono stati realizzati 2,3 chilometri di barriere. A Pescara lungo 23 chilometri di costa si contano 243 scogliere. Fra il Lido di Rivoli e Santa Margherita di Savoia (20 chilometri) si è arrivati a costruire 206 pennelli uno dopo l’altro.
«Le scogliere artificiali sono considerate soluzioni rigide, di non ritorno, a differenza del ripascimento delle spiagge che è considerato una misura morbida. A Cala Gonone, con l’ingegner Sirito, con 80mila metri cubi di sabbia abbiamo realizzato una spiaggia tutta nuova, di un bel colore rosa». Ammucchiare massi per arginare le onde può costare tra uno e cinque milioni di euro al chilometro. Per riempire di sabbia una spiaggia servono tra i 30 e i 40 euro al metro cubo (a Ostia nel 1994 se ne trasportarono 1,2 milioni). Una volta costruite, le barriere fisse creano dei cambiamenti tali nella costa da non poter essere rimosse, se non con molta oculatezza e in tempi lunghi, poco compatibili con quelli della politica. A Marina di Pisa avevamo pensato di smantellare gradualmente la scogliera artificiale, assorbendo l’energia delle onde con una spiaggia in ghiaia. Ma l’assessore comunale che favoriva il progetto non è stato riconfermato e l’esperimento è stato ripreso solo oggi dalla Provincia».
L’erosione delle coste d’altra parte nasce dalla rottura di più di un equilibrio naturale. Quello fra fiumi e onde. Quello fra inverni e primavere. E quello fra montagne e alberi. Fiumi e onde da sempre modellano la costa: i primi la fanno crescere trasportando sedimenti dai monti, le seconde l’arrotondano trascinando via le sabbie nel loro gioco di correnti. Mentre le mareggiate invernali, poi, hanno l’effetto di mangiare intere porzioni di costa, le piene dei fiumi in primavera ripristinano il patrimonio di ciottoli e granelli. Sulle pendici delle montagne, infine, le radici degli alberi impediscono al terreno di franare e di finire a valle, nel letto dei fiumi e poi nel mare.
Se negli ultimi 2mila anni in Italia i fiumi hanno avuto la meglio sulle onde (e le pianure costiere si sono allargate), dall’inizio del ’900 le onde sono tornate a prevalere sui fiumi. «Per costruire le ferrovie e le autostrade si è prelevata la ghiaia dai letti dei corsi d’acqua » spiega Dino Torri, dell’Istituto di Ricerca per la Protezione Idrogeologica del Cnr. «I consorzi di bonifica hanno ugualmente impoverito di sedimenti i fiumi. Dighe e sbarramenti riducono poi il volume di detriti che arrivano a valle». Imbrigliare la forza dei corsi d’acqua serve ad ammansirli nel momento in cui attraversano i centri abitati. «Ma sono proprio le piene — sottolinea Pranzini — a portare quantità importanti di sabbia al mare».
Alla minor portata dei fiumi si aggiunge anche il fenomeno della subsidenza, che colpisce le pianure costiere formate da sabbia ancora soffice. «Fra le varie cause c’è l’estrazione di acqua e idrocarburi dal sottosuolo. A Pisa ogni anno il suolo si abbassa di un centimetro».
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