by Sergio Segio | 26 Agosto 2013 6:41
NERVESA DELLA BATTAGLIA. C’è un bronzo in onore dei ” Caimani” sulla riva sinistra del Piave. Una statua di arditi che volano quasi, ma senza slancio, come sbattuti dal vento. Facce stravolte, moribondi tenuti insieme dalla pura volontà. Il contrario degli eroi “palestrati” richiesti dalla trasfigurazione fascista. Per questo le camicie nere distrussero la bottega dello scultore, Giovanni Possamai da Solighetto. Risparmiarono la statua, che sarebbe stato sacrilego toccare.
I caimani passavano il fiume di notte, nuotando senza far rumore, poi uscivano dall’acqua strisciando e tagliavano la gola alle sentinelle. Altri tenevano una sigaretta accesa al contrario, tizzone in bocca per non essere visti nel buio, e accendevano la miccia di una bomba. Uccidevano e rientravano, scivolando nuovamente nelle tenebre, sempre in perfetto silenzio.
Il Piave divaga nella pioggia, racconta storie da brivido sull’una e sull’altra sponda. La tomba di Stefanino Curti, capitano, sepolto dagli austriaci con la scritta “Hier ruht ein tapfer Italiener”, qui riposa un italiano valoroso. Mulino Manente, dove il bravo generale Giuseppe Vaccari trasferisce il suo comando, sulla riva nemica, sotto un uragano di fuoco. Casa de’ Faveri sul Montello dove si immola un’intera divisione austriaca appena passato il fiume sui barconi. L’Isola dei Morti, tomba dei Ragazzi del ’99.
Su queste ghiaie fatali accade il miracolo. Dopo Caporetto l’Italia capisce che non può continuare a essere inflessibile con i miserabili e ruffiana con gli arroganti. Basta macelleria. Cadorna è silurato, e con lui è spazzata via la corte di nani e ballerine, signorsì e giornalisti lecchini che l’hanno incarognito nei suoi errori e nel suo sadismo mistico. Molti si salvano il culo, come il fucilatore Graziani e l’incapace Badoglio. Ma molti altri generali scendono in trincea tra i loro uomini. La guerra si fa meno contro il popolo, e più con il popolo, perché il nemico è in casa. L’Italia di sempre, che si compatta nelle emergenze.
Dall’altra parte delle linee, un’altra metamorfosi. Comincia la fame e il saccheggio contro i civili, le razioni di pane con la segatura, l’insofferenza, il risveglio rabbioso dei popoli, il disfacimento dell’impero, un mondo che finisce, l’orchestrina del valzer viennese che diventa disco stonato. Polacchi, cechi, sloveni, ucraini prendono ciascuno la sua strada. Fanti miserabili anch’essi, che rialzano la testa dopo anni di patimento, e scrivono una storia nuova.
Fanti, è a voi che penso pestando questi ciottoli a pelo d’acqua. A voi che non avete avuto grandi scrittori a cantarvi o nomi di strade a ricordarvi, ma al massimo questo fiume che sputa a ogni piena pezzi della vostra epopea. Voi abruzzesi obbedienti e dimenticati, voi sardi veloci di coltello, silenziosi calabri abituati all’aspro monte e alla negra morte. Voi bosniaci, fedele carne da cannone, che prima di saltar fuori di trincea gridavate “Nema ruma, nema sturma”, senza rum niente assalto; e voi croati che avete inventato la parola “Crucchi” mendicando “Kruh”, pane, nelle nostre pianure.
Eravate altri un metro e cinquanta, ma vi penso giganti, ciclopi di una razza estinta. “Sdeng, faceva il rasoio elettrico del nonno — mi raccontò un emiliano — quando antiche schegge di granata gli riaffioravano sul mento”. Il vecchio rideva e davanti al nipotino di sei anni pareva un titano. E siccome la statua dei fanti in piazza era pure essa grande, nel bimbo si formò l’idea che i soldati della Grande guerra fossero tutti dei colossi. I bambini vedono più lontano di noi.
Pesavate quaranta chili nei giorni dell’armistizio, voi spettri usciti dalle trincee austriache che nel novembre del ’18, prima di dirvi addio, vi siete divisa la bandiera dei vostri reggimenti e avete cantato per l’ultima volta l’inno di un impero scomparso. Avete compiuto gesta che i ragazzi di oggi sarebbero incapaci di fare. Giganti pure voi.
Tuona il fiume sotto la scarpata del Montello, teatro delle battaglia del Solstizio, giugno 1918, mentre Corrado Callegaro, codino d’argento e parlata svelta trevigiana, mi porta in visita alla postazione Arturo. È un nipotino, anche lui del mitico comandante Walter Schaumann, il primo uomo a restaurare trincee dopo mezzo secolo di oblio. Si arrampica per una montagna di sterpi accumulati dalla corrente, poi prende velocissimo un sentiero di fango immerso nella boscaglia della riva destra.
«Avevo cinque-sei anni, i miei mi lasciavano sulle rive a pescare e io trovavo continuamente cose strane, anche monete d’argento, così ho cominciato a chiedermi cosa fosse successo da quelle parti. Qualcosa di misterioso e di grande. Ed è nata la passione. Anzi, la malattia».
Il bunker, inclinato sulla sinistra come dopo una tremenda esplosione. «Qua il disastro non l’hanno fatto gli austriaci ma i recuperanti nostri in cerca di rame » sorride, e mostra come lui e gli amici dell’associazione “Battaglia del solstizio” hanno iniziato il restauro. Sacchetti di cemento che si consolidano con la pioggia e fanno il lavoro da soli.
Si infila in ogni pertugio Callegaro, febbrile come un cacciatore di tombe egizie. Entra in una postazione per tiratori scelti, nascosta in mezzo ai rovi. Sposta una piccola lastra d’acciaio e mostra una feritoia con dentro il campanile di Falzè, bene inquadrato, sull’altra riva.
«Non dirmi che non sai che cecchino viene da Cecco Beppe…. ». No, dico, non lo sapevo. «Ma xe ciaro! Iera el fio cativo dell’imperatore.
Seminava il terrore con uno, due colpi al giorno e basta, e nessuno capiva da dove venissero. Poi l’hanno imparata anche i nostri questa tecnica».
Mettiamo i piedi sotto il tavolo di un’osteria, con davanti una caraffa di prosecco e la foto di un ragazzo bruno, quasi certamente meridionale, ucciso sul Montello. Roba venuta fuori non si sa come. Sottotenente Matasso Luigi, nato il 6.1.98 e morto il 20.6.18. Date della Gazzetta ufficiale.
«Chissà se i nipoti sanno di lui. Sarebbe bello ritrovargli una famiglia, un secolo dopo. Parlane sul giornale, così qualcuno si fa vivo». Brindiamo, e fuori ripiove.
(19 – continua)
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