L’ANATEMA SUGLI ISLAMISTI

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Il capo del governo di transizione, Hazem el-Berlaui, un economista considerato un liberale, ha precisato che la messa al bando delle associazioni di “terroristi” è già allo studio. L’Egitto è impegnato in una guerra d’usura e quindi tutto deve essere fatto per combattere gli animatori di un complotto contro la nazione. Questo è il linguaggio del potere nelle ultime ore.

ED ESSO non riflette soltanto la spaccatura violenta della società ben visibile per le strade del Cairo e delle altre città, nel delta e lungo la valle del Nilo, ma preclude ogni possibilità di un dialogo tra le forze a confronto, tra quelle genericamente definite laiche e quelle religiose rappresentate dai Fratelli musulmani.
I militari non si esibiscono in dichiarazioni ufficiali. Muovono autoblindo e tacciono. Ma quando il giudice Adly Mansour, capo provvisorio dello Stato, e Hazem el-Berlaui, l’altrettanto provvisorio primo ministro, si esprimono, gli egiziani sanno che alle loro spalle c’è il generale Abdel Fatah al-Sisi, l’uomo forte del momento. È lui che conta. Per le decisioni essenziali, il governo di transizione, formato per lo più da tecnocrati, ha un ruolo da comparsa. Il linguaggio delle ultime ore conferma quindi l’intransigenza del potere militare, nonostante le condanne e le critiche occidentali e quelle di non pochi paesi musulmani.
Non si tratta più di neutralizzare i Fratelli musulmani, ma di metterli fuori legge, con tutti i rischi che questo comporta, perché la confraternita, pur indebolita, frantumata, ha un’organizzazione capillare in tutto il paese, e tanti alleati nel mondo arabo. E anzitutto militanti decisi. Quel che è avvenuto nelle ultime settimane ne è la prova. Malgrado i mezzi della polizia e dell’esercito, e nonostante la mancata solidarietà della popolazione dopo il massacro del 14 agosto, le manifestazioni islamiste si sono moltiplicate e il potere ha stentato e stenta a controllarle. Il Cairo era semi paralizzato, le banche e molti negozi erano chiusi, il giorno dopo il “venerdì della collera”, durante il quale sono morte almeno duecento persone nel paese, dopo il migliaio di mercoledì. Tra le vittime ci sono il figlio di Mohammed Badie, guida suprema dei Fratelli musulmani, e il dottor Khaled el-Banna, nipote di Hassan el- Banna, il fondatore della confraternita ottantacinque anni fa. Non si contano i dirigenti e i militanti arrestati, e quelli ricercati dalla polizia.
Il governo ha assunto un atteggiamento altrettanto brusco, deciso, nei confronti delle potenze alleate. Stati Uniti compresi. Il generale Sisi si è ben guardato dal commentare personalmente le dichiarazioni di Barack Obama. Il quale ha condannato la repressione, ha annullato le manovre congiunte (Bright Star) dei due eserciti, ma non ha messo in discussione l’aiuto (un miliardo e mezzo di dollari) che gli Stati Uniti garantiscono dal 1979 all’Egitto, in larga parte destinato ai militari. In quanto alla prevista fornitura di aerei F16 è stata semplicemente sospesa. Il generale Sisi, che ha da tempo coltivato stretti rapporti con il Pentagono, non è intervenuto direttamente, ma ha lasciato al primo ministro provvisorio il compito di reagire. E Hazem el- Barlaui ha espresso la collera nascosta del generale Sisi senza misurare le parole. Ha accusato Obama di avere aiutato i terroristi. Con le sue critiche il presidente avrebbe incitato alla rivolta gli islamisti, che si sono sentiti spalleggiati. Il senatore John McCain, che ha visitato il Cairo nel tentativo di evitare la repressione, ha subito non pochi insulti. Un giudice, Ahmed Zind, ha detto che dovrebbe essere «arrestato e giudicato per avere cercato di distruggere l’Egitto». Un commenta-
tore politico, Ahmed Moussa, ha denunciato Mc Cain come «uno che parla a nome dei terroristi». Giornali, radio e televisioni governative presentano quotidianamente gli americani come amici dei Fratelli musulmani.
Senza il consenso del generale Sisi questa campagna anti- americana non sarebbe possibile. È chiaramente orchestrata. Il declino dell’influenza degli Stati Uniti nella regione la consente. Ma i militari egiziani possono comunque permettersela, poiché sanno di essere una componente essenziale della strategia americana in Medio Oriente. Dagli accordi di Camp David (1979) essi garantiscono la pace con Israele e il miliardo e mezzo di aiuti (oltre all’aggiornamento tecnico delle forze armate) è un appannaggio per quel ruolo decisivo. Inoltre l’Egitto consente il passaggio degli apparecchi che portano i rifornimenti alle truppe americane in Afghanistan, Nel 2003, quando la Turchia rifiutò il transito al ponte aereo necessario all’invasione
dell’Iraq, l’Egitto spalancò il suo cielo. E le navi americane usufruiscono di non pochi privilegi per passare il Canale di Suez.
Quando si parla del generale Sisi come di un “nuovo Nasser” ci si riferisce anche alla sua fermezza, alla sua spregiudicatezza nell’affrontare i problemi interni e i rapporti con le potenze mondiali. Il rais nazionalista che governò l’Egitto negli anni Cinquanta e Sessanta mise fuori legge i Fratelli musulmani, li mandò nei campi di concentramento insieme ai comunisti, e ricorse all’Unione Sovietica quando l’America respinse le sue esigenze. Oggi i Fratelli musulmani sono assai più forti di quelli del 1954, quando furono messi al bando da Nasser, e non c’è più la guerra fredda che consente di giocare tra Washington e Mosca. Ma per riflesso storico, in questi giorni, al Cairo si diceva che il russo Putin aveva proposto di organizzare con l’esercito egiziano le manovre annullate dal’ americano Obama.


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