L’ALTRA FACCIA DI CAPORETTO
PRADAMANO (Udine). Ieri ho visto la guerra da una feritoia di trenta centimetri per cinque, in una soffitta tra i campi dell’Isonzo. Il fronte era tutto lì, si apriva a centottanta gradi oltre le vigne, i papaveri e il vento. Da sinistra il Sabotino, il San Gabriele, Gorizia, poi il nastro controluce del Vipacco, il Monte San Michele, Bosco Cappuccio. In quel fotogramma sotto il cielo nero, la guerra diventava astrazione topografica, la linea collinare veniva disumanizzata e ridotta a obiettivo. Lì, lontano dalla puzza e dai lamenti, i generali decidevano che fare dei loro uomini.
Ma non era una feritoia di semplici generali. Era l’osservatorio del Re. Lo si capì anni dopo, dal ritrovamento di uno sgabello usato dal piccoletto per arrivare con gli occhi fino alla fessura. Per Sua Altezza quei venticinque centimetri erano più importanti dei chilometri del fronte, e il destino di chissà quanti reggimenti fu deciso da quel quarto di metro. Nella villa Parodi-Dandini, ex stazione di posta della diligenza Trieste-Vienna, quella rimase per anni “la scaletta del Re”, finché un bel giorno una cameriera non la buttò distrattamente nel fuoco come roba vecchia.
Ma mentre lo sgabello veniva inghiottito dal Grande Oblio, l’intera casa entrava in un incantesimo da Bella addormentata. Oggi lo si vede appena entrati. Tutto lì dentro, incluse le tende, s’è fermato al 1918. Caso ha voluto che ci facesse pure il nido un antiquario, e che costui decidesse di non toccare nulla e, anzi, di raccogliervi gli oggetti del primo Novecento di cui la Frontiera abbondava. Risultato: la villa — circondata da splendide rose e sorvegliata da oche-guardiane più ostili di un Dobermann — è diventata una grandiosa finestra sul mondo di ieri.
Appena l’antiquario — un triestino entusiasta di nome Roberto Monti — mi ha aperto l’uscio, ho capito che non mi sarebbe bastata una settimana. Dentro scintillava un mondo. Brocche celebrative dell’alleanza austro-tedesca; attestati di condoglianze per la morte di Sissi imperatrice; bandiere di veterani della Slesia; ritratti di Armando Diaz e soldatini di bronzo colorato; sciabole e chepì nella loro custodia di cuoio; pittoreschi certificati di congedo e poltrone di motonavi estinte. Da perderci la testa, e da morire di nostalgia per un mondo non ancora invaso dall’incuria.
Lì ho capito una cosa: il mio viaggio sarebbe stato anche l’esplorazione di un interminabile e affascinante museo diffuso. Ma ho capito anche che dovevo andarmene, e subito, per non restare intrappolato in quella spaventosa densità di memorie. Così ora parto, vado in montagna, su terreno di Alpini. Carso addio. Ho ancora troppa strada da fare. Seicentoquaranta chilometri, tanto è lungo il fronte del ’15’18. Ma quei 640, tra curve e saliscendi, ne fanno 1500 in termini di sviluppo. E considerato che austriaci e italiani avevano ciascuno almeno tre ordini di trincee, tutte rigorosamente a zig-zag, so di avere davanti ancora diecimila chilometri di linee di difesa, senza contarne altri diecimila di strade, sentieri, mulattiere o teleferiche. Un’opera ciclopica.
Anche l’Italia ha la sua Grande Muraglia, e non lo sa. Ignora di possedere l’unico fronte di montagna d’Europa, un balcone scolpito su nevi eterne, monoliti di dolomia, fiumi e strapiombi. Un monumento che non ha la tristezza fangosa della Polonia o della Francia del Nord, e non ha niente a che fare con l’onda lunga delle steppe oltre i Carpazi. Il nostro fronte non si misura in lunghezza, ma in altezza. Solo qui abbiamo trincee, bunker e artiglierie sopra i tremila. Solo qui è esistita la Guerra Bianca.
Per questo viaggio in quota ho cercato una guida speciale, un ex comandante generale delle truppe alpine: Bruno Petti, pellaccia da Cheyenne e cuore pervaso da una sana inquietudine per la parte austriaca della mia anima. Giocavamo alla guerra da bambini: vivevamo sullo stesso pianerottolo e avevamo entrambi genitori in divisa. Il suo era un invalido, aveva perso la vista e una gamba saltando su una mina in Russia nel ’42, e io avevo preso confidenza con la sua gamba artificiale e lo sguardo, nel quale mi pareva che la pupilla di vetro fosse più espressiva di quella autentica.
Il Generale abita a due passi da Udine, dove arrivo con un nuovo temporale, dopo un viaggio triste, in mezzo ai vetri rotti delle grandi caserme dismesse dopo la Guerra Fredda, e con addosso — anziché il brivido di una centralità mitteleuropea riconquistata — un senso di vuoto da deserto dei tartari. Ma è subito gioia di ritrovarsi dopo tanti anni. Il mio alpino è lì col caminetto acceso e le carte di Caporetto sul tavolo, piene di annotazioni sulle linee di difesa e sfondamento. Un goto de vin, e intanto una muraglia d’acqua cancella il Matajur e le valli della disfatta.
Capire Caporetto è essenziale per spiegare le ipocrisie e il cinico affarismo che governa oggi il nostro Paese. Non ci va la storiella che i soldati italiani si siano ritirati senza combattere. È uno scaricabarile imbastito da qualcuno molto in alto, dai veri responsabili del disastro. Io ho il sospetto che quei ragazzi, se vivessero oggi, prenderebbero a calci in culo gli attuali reggitori. E il Generale — che s’è fatto amare dai suoi uomini e sa che il soldato italiano, se motivato dai superiori, sa muoversi meglio di tanti altri — è convinto che nelle valli dell’Italia di oggi attecchisca ancora il senso del dovere.
Ufficiali lontani dai loro uomini? No, insiste l’alpino. Tenenti e capitani condividevano con i soldati la puzza, il sangue, il fango e il destino. «Lo dimostra la moria di ufficiali, che fu tremenda. Quanto agli incapaci e agli arroganti, credo non avessero vita lunga, perché durante gli attacchi i soldati avevano mille possibilità di toglierseli dai piedi».
Gli chiedo quale sarebbe l’esercito ideale. Risponde senza esitare: «Soldati italiani, sottufficiali inglesi e ufficiali tedeschi». E butta altra legna sul fuoco.
(11 – continua)
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