L’ALBERO DELLA MEMORIA
SAN MICHELE AL CARSO. Ogni mattina che Dio manda in Terra il signor Marino Cattunar, rievocatore della Grande Guerra in zona Redipuglia, sale a rimettere a posto i sassi caduti dai muretti della Dolina dei Bersaglieri, uno dei pochi siti della memoria bellica rimessi dignitosamente a posto sul Carso. Succede che a ogni passaggio di turisti o scolaresche qualche pezzo di trincea rotoli via, e senza un minimo di cura tutto andrebbe a catafascio. Si sa, l’uomo in tempo di pace può essere peggio di un bombardamento.
La dolina, col suo ospedale da campo, è assai più che una linea di resistenza del fronte del ’15-’18. È una trincea dell’oggi, una diga contro l’ortica che devasta le memorie del Paese. Intorno, i monumenti agli eroi perdono pezzi, i cartelli didattici sono già mangiati dal sole e dalla pioggia e subito si palesa l’Italia dei grandi annunci e dei grandi progetti, che se ne frega della manutenzione. Tocca ai volontari come Cattunar rabberciare le conseguenze. In Regione è tutto un fantasticar di milioni, ma mancano gli spiccioli per i cartelli intorno a Redipuglia.
Al centenario ci prepariamo così: vergognosamente. Eppure è proprio qui l’inferno, il buco nero, l’inghiottitoio delle vite. Togli il Grappa, il Pasubio e l’Altopiano di Asiago, il resto del fronte è uno scherzo al confronto. Quattrocentomila morti in meno di cento chilometri quadrati vuol dire quattromila al chilometro. Se invece di erigere mega-ossari, si fossero lasciate le tombe sparse, oggi tra Gorizia e il mare avremmo la rappresentazione perfetta di Necropolis, un unico sterminato cimitero. E se ci fosse un lumino per ogni Caduto, anche i jet, atterrando su Ronchi, potrebbero vedere accanto alla pista le luci di un’immensa città dei trapassati.
Lucio Fabi mi accompagna a casa sua, dietro Redipuglia. Il sole è ancora alto, ma già si prepara l’ennesimo temporale di un’estate malata. Nubi piatte di sotto e torreggianti di sopra, come una flotta di navi da guerra. Attraversiamo i luoghi di Ungaretti, Bosco Cappuccio, il Trincerone delle Frasche, il cippo della Brigata Sassari. Lucio non s’è contentato a scrivere di trincee. Ha scelto anche di viverci dentro. Il suo rifugio è in aperta campagna, a due passi da San Martino del Carso. Egli mangia, dorme, spacca legna, rasa l’erba del giardino, legge le sue carte su un tappeto di ossa umane. Ma lo fa senza paturnie, senza sentire voci o captare strane energie.
Gli chiedo se davvero nulla riemerga dall’oltretomba. Tanto più che sul Carso non c’è solo la Grande Guerra, ci sono anche le foibe di trent’anni dopo. Fantasmi più recenti e ancora senza pace.
«Quando mi sono trasferito qui da Trieste, mi sono chiesto se non fosse rimasto qualcosa di tanta sofferenza. Mi avevano avvertito che dei sensitivi avevano udito un grande urlo nell’aria. Ma altri sensitivi mi hanno detto che l’acqua dilava le sofferenze. L’Isonzo, le acque sotterranee del Carso portano via tutto. E in effetti io sento poco o nulla. Ma è la mia stessa razionalità a impedirmi di guardare a queste cose».
Si leva il vento, e succede una cosa strana: sotto il cielo nero il bosco si mette a vibrare di nastrini tricolori. Non italiani, ma dell’ex nemico: il bianco, rosso e verde dei magiari. Il San Michele è un immenso cimitero di ungheresi, ed è stato letteralmente alluvionato dalle loro coccarde. Si racconta che qui il fango della terra rossa si incollasse alle divise al punto da rendere indistinguibili i due schieramenti. In vita e in morte, stessi colori per vincitori e vinti. A differenziarli, oggi come allora, c’è un altro, arcano segno di appartenenza. Un albero.
Nel ’16 ne era rimasto in piedi uno solo — un gelso — sul terreno rasato dalle esplosioni. Per gli italiani era solo un punto di riferimento delle artiglierie. “Puntare a destra dell’albero isolato” gridavano al telefono gli ufficiali di tiro. Per gli ungheresi era invece un orgoglioso segno di appartenenza, carico di significati pagani. Quella pianta pativa e resisteva con loro, era anche la personificazione dei Caduti. E così, quando Cadorna iniziò lo sfondamento della sesta offensiva, il 46.° reggimento degli Honved lo segò e se lo portò dietro nella ritirata.
Imbandierato e decorato con targhe in bronzo, fu così condotto in retrovia, affiancato agli altari per le messe da campo, e poi a guerra finita trasferito in un museo di Szeged, in Ungheria, dove nel ’45 fu prudentemente nascosto ai russi vincitori. Lì venne dimenticato, ma solo per riapparire in una soffitta molti anni dopo. Ora, con nuove coccarde tricolori, è stato riportato — con una cerimonia commovente — per qualche mese alla terra dove nacque, nella “Wunderkammer” di un museo di San Martino.
Ora ce l’ho davanti e ne leggo le iscrizioni nella lingua delle steppe, zeppa di dieresi e groppi consonantici: “Sulle pietre di Doberdò è stato sparso il sangue degli Honvéd”. Doberdò per gli ungheresi equivale a Carso.
Un tronco che risorge è un simbolo oscuro che inchioda. Ne afferro brandelli: l’albero sacro dei popoli del Nord, il totem degli indiani d’America, la foresta che cammina di Macbeth. Ma un significato specialmente mi prende: il legame tra rami e radici, cielo e inferi, luce e tenebra.
Succede perché anch’io ho il mio albero in Carso. Un noce, che ho piantato per celebrare la nascita di un nipotino. Per scavare una buca come si deve, ho dovuto smantellare quel terreno di pietra dura a colpi di mazza, e subito, sudando sotto il sole, ho sentito vicini i miei fanti sepolti lì intorno. Oggi, davanti al tronco degli Honvéd, ripenso al piccolo noce che cresce solitario in una radura, e capisco che anch’esso è un albero isolato e di trincea.
Sì, forse sto familiarizzando con la terra, come si conviene a chi ha i capelli bianchi. Ho sete di terra, vorrei zapparla, rivoltarla, affondarci dentro le mani. Mi accorgo che vita e morte si toccano, se è vero che per seppellire un uomo e far nascere una semenza, si compie la stessa identica azione.
(9 – continua)
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