by Sergio Segio | 7 Agosto 2013 8:32
Un report rilasciato da J.P. Morgan nel maggio di quest’anno, dal titolo The Euro Area Adjustment, individua nelle costituzioni antifasciste dei paesi «periferici» una delle cause della mancata capacità dell’Europa di rispondere adeguatamente alla crisi. Senza ricorrere a perifrasi, la tutela costituzionale dei diritti del lavoro e il riconoscimento del diritto alla protesta dei cittadini che quelle carte garantirebbero vengono considerate fra le ragioni della scarsa diligenza con cui Portogallo, Spagna, Grecia e Italia avrebbero intrapreso le riforme fiscali ed economiche necessarie per guadagnare il favore dei mercati. Nella sua sintesi, il documento redatto dagli analisti della famigerata banca d’affari sembra offrire una conferma alle tesi espresse da Wolfgang Streeck in Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, recentemente pubblicato da Feltrinelli (pp. 272, euro 25).
Al centro di questo interessante volume si colloca la constatazione di come il grande capitale, a partire dagli anni Settanta, si sia mosso con determinazione al fine di smantellare, nei paesi dell’Occidente industrializzato, quel complesso di vincoli imposti ai suoi processi di valorizzazione dal postwar settlement del capitalismo democratico o, se si preferisce, dal «compromesso fordista» fatto di salari alti, diritto sociali, welfare e stato neo-corporativo.
Prendere tempo: questa la politica che le democrazie avanzate avrebbero seguito negli ultimi decenni a fronte della sempre maggiore espansione e autonomizzazione della sfera economica e della capacità dei mercati di sottrarsi a ogni controllo. Ma a un certo punto, quando il tempo non è dalla propria parte, per citare gli Stones degli esordi, i nodi vengono al pettine e prendere tempo non è più possibile. Streeck avvia la sua narrazione con la crisi fiscale degli anni Settanta. Il ricorso all’inflazione avrebbe inaugurato la pratica di «prendere tempo», permettendo di coniugare garanzie sociali ed espansione dei consumi con una crescita economica rallentata attraverso l’illusione del fiat money. La stagflazione, a parere di Streeck, segnalerebbe la secessione del capitale, tramite uno sciopero degli investimenti, rispetto a tale politica. La risposta sarebbe stata, dopo il passaggio per le forche caudine della stabilizzazione monetaria, la transizione allo «stato debitore», in cui il debito pubblico avrebbe sostituito l’inflazione nella funzione di anticipazione. Con la liberalizzazione dei mercati finanziari, inoltre, gli stati iniziarono a disporre di un’ampia platea di attori finanziari a cui piazzare il proprio debito, al cui incremento contribuiva non tanto l’espansione della spesa per il welfare, come vorrebbe molta analisi economica mainstream, ma la sempre maggiore sottrazione dei grandi capitali all’imposizione fiscale. Nel frattempo, mentre una parte sempre più cospicua dei bilanci statali era impiegata per remunerare il debito, il ridimensionamento delle prestazioni del welfare veniva compensato favorendo l’indebitamento dei privati.
La politica del debito
Con lo stato debitore, nota Streeck, le élite politiche finiscono per assumere come referente due differenti constituencies, ossia due popoli, uno a base nazionale, formato dai cittadini, e l’altro, disseminato a livello globale, formato dagli investitori, reali e potenziali, di cui diviene sempre più importante garantirsi il consenso, specie quando iniziano a diffondersi perplessità circa la solvibilità di alcuni stati. Prendere tempo diviene sempre più difficile e costoso. E così si avrà il passaggio alla successiva forma, lo «stato consolidato», la cui funzione prioritaria consiste nel garantire gli interessi di un popolo a scapito dell’altro, degli investitori a scapito dei cittadini (anche se non mancano intersezioni e sovrapposizioni fra le due constituencies). Come sottolinea il sociologo tedesco, i migliori risultati in tale direzione si ottengono «tramite istituti come il “pareggio di bilancio” (…) in costituzione che limitano la sovranità degli elettori e dei governi futuri circa la gestione delle finanze pubbliche» o con l’insediamento di governi di grande coalizione in grado di porre al riparo le decisioni assunte da eventuali ripensamenti da parte dei futuri esecutivi. Il problema è quello di garantire che nel presente e nel futuro eventuali sacrifici ricadano sulle popolazioni e non sugli investitori.
Una particolare attenzione, poi, è riservata all’Unione europea, visto come una sorta di schema ideale di stato consolidato, di principio generatore di una costituzionalizzazione in quel senso dei singoli stati europei. Per Streeck, infatti, l’Ue costituirebbe la concreta realizzazione del modello liberista proposto da Friederich von Hayek in un articolo del 1939 dal titolo The Economic Condition of Interstate Federalism, in cui l’istanza federale sottrae ai singoli stati una serie di competenze regolatorie in materia economica e sociale ma non per farsene carico direttamente quanto per consegnarle ai decreti «neutrali» del mercato. In sintesi, lo stato consolidato europeo sarebbe una «struttura non nazionale ma internazionale», «un regime sovranazionale destinato a regolare il funzionamento degli stati», «una governance e non un government in cui la democrazia è interamente addomesticata dai mercati».
Il libro di Streeck costituisce un esempio riuscito di teoria in tempo reale, di concettualizzazione in presa diretta delle trasformazioni del presente, a cui, tuttavia, è possibile muovere due critiche, una di tipo teorico, l’altra di carattere politico. Sul piano teorico, si potrebbe rilevare come Streeck, contrapponendo la logica del mercato a quella della politica democratica, cada nell’equivoco del «neoliberismo», una fortunata etichetta che, pur in termini polemici, finisce per aderire alla rappresentazione ottimistica che di se stessi hanno fornito nei passati decenni sia i soggetti imprenditoriali portatori di una proposta efficientistica fondata sul mercato sia la politica e i media schierati a loro supporto.
Nel mondo dei «robber barons»
Quando si considerano le dinamiche di estrazione di valore del presente, però, più che nell’imprenditore schumpeteriano che competete su liberi mercati ci si imbatte in partnership pubblico-privato basate sulle socializzazione delle perdite e la privatizzazione dei profitti, nell’assalto alla diligenza dei finanziamenti pubblici, nell’acquisizione, grazie alla mediazione della politica, di posizioni di monopolio, monopsonio o rendita. Di fatto, le dinamiche del capitalismo contemporaneo sembrano rimandare non tanto agli schemi sul mercato dell’economia neoclassica quanto alla truce epopea dei robber barons o alle pagine dedicate da Marx e Polanyi alla cosiddetta «accumulazione orginaria».
Dal punto di vista politico, invece, allo studioso tedesco va senza dubbio riconosciuto il merito di evitare ogni retorica consolatoria nei confronti non solo di improbabili piani per la crescita ma anche delle opposizioni «ragionevoli» e delle proposte politiche che mirano a un’austerity dal volto umano. Diversamente, la rivolta di piazza, l’insubordinazione e l’irragionevolezza di chi il debito non lo vuole pagare vengono colte come l’elemento energetico che può spingere i singoli paesi a resistere alle pressioni dello stato consolidato. Si tocca qui un limite della proposta di Streeck, ossia la sua dimensione sovranista, in base alla quale solo sul terreno dello stato nazionale sarebbe possibile articolare politiche di resistenza nei confronti della tempesta neoliberista. E tuttavia è lecito chiedersi se la capacità di disturbo e interferenza delle mobilitazioni dal basso non sia più produttivamente proiettatabile su quei sistemi trasnazionali parziali, in primis la finanza globale, rispetto ai quali la politica statale esercita una presa sempre più scarsa, agendo direttamente sui loro medium, per esempio la moneta e lo spazio.
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