La rabbia dell’America contro i generali egiziani “Fate cessare le violenze”

by Sergio Segio | 15 Agosto 2013 8:36

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NEW YORK  — Il segretario di Stato americano, John Kerry, invoca la fine dello stato d’emergenza «al più presto» e definisce il massacro del Cairo «un colpo grave». Il capo della diplomazia americana interviene dopo aver parlato col ministro degli Esteri egiziano, a cui ha detto che queste violenze «rendono molto più difficile il ritorno alla democrazia ». Kerry si rivolge ai militari: «Avendo la superiorità della forza in questi scontri, hanno una responsabilità unica nel prevenire nuove violenze». Ma un portavoce di Barack Obama, Josh Earnest, conferma che la Casa Bianca non è pronta a compiere un passo decisivo: definire ufficialmente quello dei militari un colpo di Stato, il che farebbe cessare in base alla legge Usa ogni aiuto di Washington alle forze armate egiziane (attualmente 1,3 miliardi di dollari all’anno). Il portavoce di Obama si limita a ribadire «gli appelli ai militari perché dimostrino controllo, rispettino i diritti universali dei cittadini». È troppo poco, davvero troppo poco. Perfino un falco come il senatore repubblicano John McCain, reduce da un viaggio in Egitto, non ha dubbi: «Si tratta di un golpe, bisogna dirlo». Incalzato, il portavoce Earnest ribadisce: «Abbiamo stabilito che non è nell’interesse degli Stati Uniti fare quel passo». Ovvero tagliare gli aiuti alle forze armate colpevoli della strage.
L’imbarazzo dell’Amministrazione Obama è evidente. Oltre all’escalation di violenza, al bilancio terrificante delle vittime, ora c’è anche la dimissione dal governo ad interim del vicepresidente Mohammed El Baradei, un laico moderato, che gli americani conoscono bene (fu capo dell’Aiea, l’agenzia atomica Onu) e che poteva essere un interlocutore prezioso in una transizione verso il ritorno alla normalità. La timidezza di Obama gli attira critiche durissime. Le più aspre vengono dai settori liberal. Le riassume l’editoriale del Washington Post, dai toni particolarmente severi. L’Amministrazione Obama viene definita addirittura «complice nel nuovo e orrendo spargimento di sangue». Le proteste della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato, scrive il quotidiano della capitale, sono ignorate dai militari com’era prevedibile, «perché Washington ha già dimostrato che i suoi moniti non sono credibili». Viene ricordata la gaffe di Kerry: in un’intervista televisiva si lasciò sfuggire che i militari stavano «ripristinando la democrazia» (giudizio poi rimangiato e corretto dallo stesso segretario di Stato). Il fatto che l’America non interrompa i suoi aiuti finanziari ai militari, prosegue il Washington Post, «contribuisce a spingere l’Egitto nella dittatura, anziché a restaurare la democrazia ». L’editoriale sottolinea la rilevanza delle dimissioni di El Baradei, un segnale che anche quei laici moderati che inizialmente diedero fiducia ai militari, hanno dovuto ricredersi. Per il Washington Post c’è una sola via d’uscita: anche se l’America non ha il potere d’influenzare il tragico corso degli eventi al Cairo, deve sospendere ogni aiuto e dare così un messaggio forte ai generali sulla necessità di cessare la repressione e restaurare la legittimità democratica.
Michele Dunne, un’autorevole esperta di Medio Oriente nonché ex diplomatica in quell’area, accusa la politica estera di Obama verso l’Egitto di essere «basata sulla paura anziché sui principi». La paura, cioè, di «perdere la cooperazione sulla sicurezza con i militari», che ha garantito la pace con Israele ed è stata uno dei pochi elementi di stabilità nella regione. Con le sue incertezze, sostiene l’esperta, la Casa Bianca ha finito per alienarsi tutti gli interlocutori, dai Fratelli musulmani alle componenti laiche dell’opinione pubblica egiziana.

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