La guerra dei domini
Tutti quanti usiamo Internet, lo consideriamo uno spazio democratico e aperto in cui agire e interagire liberamente. Sappiamo anche, almeno a grandi linee, che cosa è un dominio, cioè l’indirizzo di un sito (nome alfabetico che identifica uno spazio di un server Internet). Ogni dominio (di primo livello) è caratterizzato da una desinenza “.com”, “.it”, “.org”.
Quello che pochi sanno è che lo spazio disponibile su Internet è gestito da un singolo soggetto, un ente privato californiano che si chiama Icann (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers). Fino a poco tempo fa, i domini di primo livello erano legati al tipo di ente detentore del sito, ad esempio “.com” per gli enti commerciali, oppure alla nazione di appartenenza, come “.it” per l’Italia. A partire dal 2012, l’Icann ha deciso di espandere il proprio raggio d’azione aprendo la procedura per l’assegnazione di nuovi domini generici di primo livello legati a termini di senso compiuto in qualsiasi lingua del mondo. Per esempio, si potranno mettere in rete siti con desinenze come .vin, .food, .kid.
Che Internet, lo strumento democratico per eccellenza, sia nelle mani di un solo soggetto per di più privato è quantomeno bizzarro, ma che ora questo soggetto si arroghi il diritto di vendere tutte le parole del mondo è, a mio avviso, davvero inaccettabile.
Inaccettabile per una serie di ragioni che proverò ad analizzare, prendendo come riferimento quella che è la mia area di competenza, l’agricoltura.
Se la procedura avviata dovesse andare a buon fine, chiunque disponesse di 185mila dollari, questa la cifra richiesta, potrebbe acquistare da Icann la parola che desidera. Si tratta di un ottimo affare, infatti sono già state avanzate più di 1.900 richieste, molte delle quali riguardano il cibo e l’agricoltura, tra cui .food, .wine, .pizza, .bio.
Chi ha i soldi per fare dei simili investimenti? Sicuramente non i piccoli produttori, anche quando si riuniscono in consorzio. Si tratta di un meccanismo destinato a favorire la grande industria multinazionale o, peggio, investitori senza scrupoli disposti a salire su qualunque cavallo pur di aumentare i propri profitti, se non riciclare denaro proveniente da attività poco chiare, come dimostra il fatto che molte delle domande avanzate provengono da società anonime con sede in paradisi fiscali. Il rischio che ne consegue è molto grave. In un momento storico in cui Internet è diventato un importante canale di informazione e di vendita diretta di prodotti agroalimentari (tra il 2010 e il 2013 le aziende agricole con un sito di e-commerce sono cresciute del 400 per cento), la possibilità per chiunque di aprire siti come barolo. wine, pizzanapoletana.pizza o verdure.bio, è un’arma poderosa nelle mani della contraffazione o dei produttori di italian sounding.
A risultarne penalizzati sarebbero i produttori e i luoghi in cui vivono, i consumatori e l’economia italiana ed europea.
Per esempio, basta pensare che i vari Dop e Igp, nati per salvaguardare i prodotti di eccellenza legati ai territori, che in Italia valgono 12 miliardi di euro e in Europa 54, sono già fortemente minacciati da una contraffazione diffusa. Ma chi può opporsi a questa decisione? In termini vincolanti, nessuno. In termini consultivi, Icann ha alcuni interlocutori, il principale dei quali è il Gac (Governmental Advisory Comittee), ente che raggruppa i governi che ne fanno richiesta.
Lo scorso 18 luglio a Durban, in Sud Africa si è chiusa, lontano dalla scena mediatica, un’importante riunione che ha visto Icann e Gac confrontarsi proprio su questi temi. Il Gac ha sostenuto con decisione la necessità di regolamentare la concessione di questo tipo di domini nel rispetto dei principi fondamentali della proprietà intellettuale sanciti dall’Organizzazione mondiale della proprietà Intellettuale e di quelli a tutela della libera fruizione dei termini generici stabiliti dall’Organizzazione mondiale del commercio. In particolare la contesa si è concentrata sul dominio .vin,
per il quale, dopo quattro giorni di infuocate discussioni, si è decisa una tregua per trovare un accordo. Fautori di questo braccio di ferro, in contraddittorio con gli Stati Uniti, sono stati l’Unione Europea e, in particolare, Italia e Francia, che si sono fatte promotrici delle istanze dei loro tanti produttori di vino. Si tratta di una partita molto importante: vincerla significa lanciare un messaggio forte e chiaro a tutti coloro che sono pronti a scatenarsi in un accaparramento di parole, prodotti e competenze che sono sapere. O meglio, bene comune. Le nuove tecnologie rappresentano un’enorme opportunità per aprire nuovi spazi democratici in cui le informazioni possono circolare liberamente e in cui le reti reali possono trovare un rapido mezzo di contatto e scambio. Con Internet i consumatori, sempre più attenti a quello che mettono sulle loro tavole, possono accedere a informazioni dirette e acquistare prodotti da agricoltori i quali, a loro volta, nella rete hanno trovato un nuovo sbocco commerciale libero dal giogo dei mille intermediari. Scambiarsi le informazioni e le conoscenze significa fiducia; acquistare e vendere direttamente significa pagare un prezzo giusto che remunera equamente il produttore e non strozza il consumatore.
Perdere questa occasione, lasciar cadere la rete prigioniera degli stessi meccanismi che hanno reso il cibo commodity, mettendo di fatto il mercato nelle mani di pochi potentissimi investitori, sarebbe un peccato mortale.
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