LA CIMA CON VISTA SUL SECOLO BREVE

by Sergio Segio | 9 Agosto 2013 6:23

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MONTE HERMADA. IL TRENO abbandona il mare, piega a destra, passa il bivio per Lubiana, entra nel Carso. Tuoni lontani, qualcosa di malato nel vento. Alla stazione di Visogliano- Vizovlje, persa in mezzo alle doline, mi investe una bora calda che non ho mai sentito. Sessant’anni di pace hanno smantellato il clima più di una guerra planetaria. Sono solo sulla pensilina, col mio sacco e il bastone da montagna. In 19 minuti da Trieste è cambiato tutto. La città è un pianeta lontano, la Slovenia a pochi passi. Anche il tempo ha cambiato binario. Siamo nel ’15, e l’Italia ha dichiarato guerra all’Austria.
Cicale assordanti, furiose. Parto a piedi per Ceroglie, all’ombra del monte Hermada, e monte è dire troppo, per un’altura così ridicola. Eppure è quello il Grappa degli austriaci, il loro ultimo bastione. Per 29 mesi gli italiani hanno cercato di prenderlo, vomitando milioni di granate, ma senza successo. Logico che lo chiamino “monte”. Non può essere collina un luogo costato migliaia di morti. Su tutto il Carso è così. Orografia gonfiata dai generali. Monte San Gabriele, Monte Debeli, Monte Santo. Giganteschi nel mito, nella realtà deludono. Non svelano il prezzo insensato che sono costati.
C’è un assembramento di militari nel cortile della “Klarceva Hisa”, una locanda che nel ’18 fu l’unico edificio dei dintorni risparmiato dalle bombe. Fanti italiani e soldati austriaci, alpini con penna nera sul cappello e gebirgschützen con la stella alpina. “Figuranti” li chiamano, ma sono di più: rievocatori di storia. Della Grande Guerra hanno pure l’odore. Sudano in divise di panno, perché allora d’estate si faceva così. Scafandri di lana cotta, per proteggersi dalle schegge. Roba da morirci dentro. Una crocerossina mi offre ridendo ciliegie sotto spirito chiedendo se ho bisogno di antibiotico.
Sbuca un triestino dal cappello austriaco in panno verde, nome Roberto Todero. Quelli che si occupano del ’15’18 lo conoscono tutti, da qui allo Stelvio. Ha una collezione unica di oggetti imperial-regi. Niente bombe o baionette; nulla che serva a uccidere. Solo borracce, pipe, gavette, pignatte. Dalle mie parti pare l’unico che si prepara per tempo al centenario. Ora mi apre pista verso l’Hermada con una lupa di tre anni che lo tira sul sentiero ansimando come una locomotiva.
«Cossa te va a far sto viagio in estate — brontola — per capir la trincea ghe vol l’inverno». Sì, meglio il fango, il vento e la neve, piuttosto che questo fiato incandescente che disidrata.
Labirintodipostazionidiobici, doline, crateri da esplosione, grotteattrezzatearifugio.All’ingresso di ogni caverna, due numeri: la capienza normale e d’emergenza. Qui venivano a chiudersi gli austriaci, come topi, quando Cadorna bombardava dal Timavo. Si scende in un altro mondo, la torcia elettrica sciabola fra massicciate, inghiottitoi, scalette di cemento che scompaiono verso piccole città sotterranee, buie come necropoli. Condensa di vapori, sfiati del tempo, ansimare del cane. Pare di affacciarsi sulla tomba di Agamennone. Anni che paiono millenni, storia che è già archeologia.
Di nuovo luce violenta, poi la cima, un dedalo di casematte, gallerie, ricoveri, osservatori. Ecco perché i crucchi tennero duro quassù: vista perfetta sulla pianura e le linee italiane. Redipuglia, Monfalcone, Doberdò. Ma per capire bene devo arrampicarmi su un carpino, la vegetazione haoccultatotutto.L’Italia se ne fotte della memoria dei luoghi. E dire che qui è riassunto il secolo breve: c’è pure un relitto della Guerra fredda, la piattaforma in cemento della baracca di confine dopo il ’45. Da qui a Tarvisio il fronte e le postazioni della Nato, le basi segrete di Gladio e quelle della resistenza partigiana non smetteranno di intrecciarsi e ignorarsi a vicenda.
Quando ritorno, nella locanda già si canta “Gott Erhalte” e “Addio mia bella addio”, e intanto fra i grigioverdi scorre un vino scuro come la pece, di nome Teràn, ferro e tannino buono per gli anemici, quintessenza pietrosa del Carso. Sloveni e italiani insieme: la pace la celebrano così, ricordando la guerra. Meglio che riempirsi la bocca di falsi buonismi.
Nel gruppo c’è un uomo con stampelle e barba bianca che pare un reduce dal fronte. Si muove lentamente e con pena. È una vecchia conoscenza: Paolo Parovel, uno di quei bastiancontrari che se non esistessero bisognerebbe inventarli. Trent’anni fa ha pubblicato un libro sui cognomi triestini cambiati dal Fascio, facendosi così odiaredagliitalianissimi.Oralavora allaricostruzionediunmovimento indipendentista, seminando nuovi malumori. Solo a nominarlo si sollevano putiferi, ma che importa. In Italia la memoria è coltivata dagli originali, non dalle istituzioni.
Mi avvicina avvinghiato ai bastoni, ora sembra Elia, che alla vigilia della partenza profetizza la malasorte del Pequod nella caccia a Moby Dick. «Vai a salutare i caduti austroungarici prima di passare ai Caduti di Redipuglia — mi esorta — vedrai dai nomi sulle tombe che cosa è stato l’impero». Cecco Beppe non si rivolgeva al popolo, ma «ai miei popoli» e i suoi proclami erano in infinite lingue. «L’Austria- Ungheria era già una piccola Ue. E che cosa sta distruggendo oggil’Europasenonimicro- egoismi nazionali?». Come dissentire? Capire questa guerra è centrale per tenere in piedi la baracca dell’Unione.
«Seinen für Kaiser und Vaterland gefallenen Kamaraden» sta scritto dei boemi del reggimento 91, a Brje, poco oltre il confine sloveno, in un piccolo camposanto tra le vigne. Ai camerati caduti per l’imperatore e lapatria.Scritteintedesco,ceco, serbo, ungherese. Croci, ma anche qualche stella di Davide, una mezzaluna turca dei bosniaci. E un’infinita pace. Ossa nellaterra,nelgrembodellamadre, non condannate al freddo marmoreo come a Redipuglia.
Erba curata, tappeti di fiori gialli. La sera rinfresca, scende con ciclisti e tigli gonfi di vento. Mi butto nel prato fra le tombe, e per qualche minuto dormo profondamente.
(6 — continua)

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