by Sergio Segio | 20 Agosto 2013 16:14
Così come dalla decisione del Senato di affrontare con procedura d’urgenza la riforma della legge elettorale, ora presentata come priorità assoluta dal presidente del Consiglio. Ma queste indicazioni non paiono aver modificato il modo d’essere d’una politica ormai avvelenata.
Sono gli effetti di un lungo incancrenirsi, mai adeguatamente contrastato. Ci si è affidati sempre più all’azzardo, si rimane appesi a dichiarazioni personali che possono fare o disfare un governo, l’orizzonte si riduce sempre di più, davvero si vive alla giornata, e persino la giornata si accorcia, si è appesi a quello che qualcuno dirà nella mezz’ora successiva. Privata di senso, prigioniera di emergenze vere o costruite, la politica italiana comunica un senso di vuoto. Lo rendono evidente le vicende del governo, poiché la dignità con la quale Enrico Letta cerca di farlo sopravvivere finisce con il sottolineare ogni giorno, impietosamente, proprio la dipendenza da una condizione che subordina questa sopravvivenza agli interessi di un autocrate e alle schermaglie personali che percorrono il Pd.
L’estrema degradazione della politica la cogliamo in questo momento, con la minaccia di far cadere il governo qualora il Pd voti al Senato per la decadenza di Berlusconi. Un passaggio obbligato, una presa d’atto prevista da una legge votata anche dal Pdl, vengono trasformati in un atto di discrezionalità politica. Una volta di più la legalità scompare, quasi che non facesse più parte del nostro corredo istituzionale, mentre sarebbe il caso di riflettere sul fatto che nell’incandidabilità si riflette una più profonda logica costituzionale, la necessità di sanzionare l’“indegnità morale”, di cui parla nell’articolo 48 a proposito dell’esclusione dal diritto di voto.
Ma dalle minacce a Parlamento, governo e partiti si è ora passati ad una pressione esplicita sul presidente della Repubblica, ben oltre le “interferenze” alle quali Napolitano aveva reagito. Cercando di coinvolgerlo in una crisi propriamente politica, e così imputandogli indirettamente la responsabilità di una eventuale crisi di governo, si vuol produrre una rottura istituzionale, imponendo la prevalenza delle ragioni di una parte su principi e regole che garantiscono gli equilibri costituzionali. L’irresponsabilità di questi comportamenti è evidente, e rivela quale sia il modo in cui il Pdl ha inteso il suo esser parte delle “larghe intese”, trasformando l’argomento dell’emergenza nella pretesa di imporre il proprio punto di vista. Un governo dichiarato senza alternative può dunque divenire terreno per le manovre più spregiudicate e pericolose.
Per uscire da questa situazione, bloccata e non “blindata”, serve fermezza nelle risposte istituzionali e chiarezza nelle reazioni politiche, da parte del Pd in primo luogo. Verranno? Solo se la scena politica verrà sgombrata da questo rischio, sarà possibile affrontare seriamente la riforma elettorale, poiché sappiamo che la sopravvivenza della legge Calderoli aggiunge emergenza a emergenza, viola la Costituzione, sì che non si può tornare a votare con quelle regole. Vi è dunque un obbligo costituzionale di liberare dall’illegittimità un atto fondativo della democrazia, la costituzione stessa della rappresentanza politica. E, nel momento in cui ci si arrovella intorno all’ingovernabilità, è bene avere memoria del fatto che quella legge fu concepita proprio per impedire alla coalizione guidata da Prodi, pronosticata vincitrice alle elezioni del 2006, di poter governare. Lì è la vera origine di molti guai di oggi, e di un inquinamento della politica dal quale è indispensabile liberarsi senza continuare a subordinare questa riforma alle convenienze. Dietro le parole assai esplicite di Enrico Letta vi è anche la consapevolezza che la priorità attribuita a questa riforma esige l’apertura di una discussione parlamentare che non può essere confinata nel recinto sempre meno praticabile delle larghe intese?
Proprio le ultime vicende, inoltre, rivelano l’urgenza di uscire da una logica per cui ci si dichiara continuamente prigionieri politici di una qualche emergenza, distogliendo così lo sguardo dalle possibili dinamiche parlamentari, che non sono necessariamente quelle che abbiamo conosciuto in questi mesi. Si è costruita l’immagine di un sistema bloccato intorno ad un’unica possibile maggioranza, istituendo una nuova “conventio ad excludendum”, che si alimenta di reciproche incomprensioni e associa la fine dell’attuale maggioranza con il ritorno al voto. Ma lo scioglimento delle Camere, in una democrazia rappresentativa, non è un atto d’imperio, ma deve partire dalla registrazione di un dato di realtà — l’impossibilità di dar vita ad un diverso governo, ad un’altra maggioranza. Questa riflessione appartiene agli obblighi della politica, al modo in cui si costruiscono le relazioni tra le forze parlamentari, mai date una volta per tutte, alla capacità di non di alzare steccati. Ci vuole coraggio per questo allargamento di orizzonti, e in giro se ne vede poco. Anzi, i tentativi di far sì che il nostro non si presenti come un sistema bloccato, in grado di uscire dalle strettoie sempre più evidenti di questa maggioranza, si scontrano con la vista corta dei vari protagonisti.
Proprio questo bisogno di aperture e di ritorno al coraggio politico impone di non dimenticare la regressione nella quale siamo piombati, ormai vera e propria barbarie, con marcati caratteri eversivi. I vizi di una politica intossicata non possono essere registrati senza una reazione. Se oggi il tema capitale è quello della ricostruzione di una vera cultura politica, siamo di fronte ad un compito che appartiene non a una generica “società civile”, invocata troppe volte con effetti disastrosi, ma esige un impegno delle diverse forze politiche, sociali, civili che in questi anni hanno concretamente mostrato come un’altra politica sia possibile. Non si tratta di vicende marginali o minoritarie. Ricordo l’opposizione vincente alla “legge bavaglio”; i ventisette milioni di votanti vittoriosi nei referendum contro la privatizzazione dell’acqua, il nucleare, le leggi ad personam; la concreta e coraggiosa battaglia per la legalità dell’associazione Libera; la scelta della Fiom di credere nei giudici e di farsi così sindacato dei diritti; Emergency, con una proiezione internazionale del diritto alla salute che lo fa diventare emblema di una lotta per la pace; manifestazioni come quella del 2 giugno a Bologna, dove decine di associazioni si sono unite per la difesa della Costituzione.
Ma la difesa della Costituzione non può esaurirsi nella sacrosanta denuncia delle manipolazioni delle regole di garanzia relative al suo cambiamento. Vi sono ormai le condizioni perché proprio dai suoi principi parta la ricostruzione di una politica che torni ad essere, come deve, “costituzionale”. Questo è il punto d’incontro delle diverse forze appena ricordate che, non a caso, vogliono individuare un terreno comune di azione. Dal vuoto politico ad uno spazio politico. Qui anche le persone di buona volontà presenti nel sistema politico potranno trovare, se lo vorranno, possibilità di dialogo e consenso sociale, indispensabili per battere le resistenze che lì si annidano.
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