Il salvacondotto del Cavaliere

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 All’(ex) uomo più potente d’Italia questo oggi rimane, di tanta speme. Il suo popolo comincia ad abbandonarlo, come testimoniavano ieri le sparute comitive di pasdaran accorsi all’appello. C’era davvero poca gente davanti a Palazzo Grazioli, nonostante i tentativi del Tg5, in versione cinegiornale Luce, di farla apparire una folla oceanica. Falsa cronaca e truccati i sondaggi che sbandierano un’impennata di consensi alla quale il capo è il primo a non credere. Berlusconi dunque non rovescerà il tavolo perché probabilmente non otterrebbe l’agognato salvacondotto dagli elettori. Tanto meno può sperare di ottenerlo dal Quirinale.
Non s’è mai visto un presidente della Repubblica concedere una grazia a un condannato che è anche imputato in molti altri processi, non si è mai ravveduto e anzi continua ad attaccare la magistratura. Senza contare che il gesto di clemenza avrebbe un effetto devastante sull’immagine dell’Italia all’estero, dove la «caduta del buffone» (The Economist) da giorni suscita commenti in bilico fra disgusto, fastidio e commiserazione per il nostro Paese. L’argomento principale dei cortigiani alla Santanchè, e cioè che uno votato da dieci milioni di italiani (in realtà sono otto) avrebbe diritto naturale alla grazia, oltre Chiasso fa ridere. Richard Nixon aveva appena stravinto le elezioni in 49 stati su 50 quando fu travolto dal Watergate, ben prima dei processi. Helmuth Kohl aveva governato quasi quanto Bismarck, unificato la Germania e preso venti milioni di voti dei tedeschi, quando fu spazzato dalla scena politica per aver creato fondi neri per 300 mila euro. Meno di un millesimo dei fondi neri creati dal nostro.
Senza potersi appellare al popolo o al Quirinale, l’unico salvacondotto che rimane a Berlusconi è quello del governo di larghe intese. Non sarebbe del resto stato semplice convincere i ministri della destra, che ieri non si sono fatti vedere al bel funerale, a mollare le poltrone. Ora il problema politico passa paradossalmente tutto nel campo del Pd. Il premier Letta e il partito di maggioranza sono attesi a prove ardue. Berlusconi non rimarrà buono e calmo nei prossimi mesi, continuerà ad alternare le giornate da statista a quelle da arruffapopolo, i toni concilianti responsabili a quelli ricattatori. Il Pd è come quei signori eccentrici che prendono a guinzaglio un ghepardo e pretendono di trattarlo come un chihuahua. Dovranno tenere a bada gli istinti ferini del Cavaliere e della corte al seguito, nello stesso tempo fronteggiare la rivolta morale della base e negli intervalli pensare a come uscire dalla crisi. Un compito difficile perfino per gente bravissima nell’arte del temporeggiare. Già oggi la grande missione del governo, quella di portare fuori il Paese dalla crisi, per la destra è diventata secondaria rispetto all’urgenza di prendersi una vendetta sulla magistratura, mascherata da riforma della giustizia. Tirare a campare, diceva all’epoca Giulio Andreotti, è sempre meglio che tirare le cuoia. Ma in questo caso le due strategie potrebbero coincidere.


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FACEVA certamente effetto vedere l’aula di Montecitorio per metà  deserta: segnalava con la forza d’una immagine la spaccatura del Paese in due, che dura ormai con alterne vicende dal 1994 avendo raggiunto poi il suo culmine negli anni successivi al 2001. Sono dunque ben tre legislature durante le quali la maggioranza ha imposto la sua dittatura, le regole sono state aggirate o travolte, la questione morale è di nuovo tornata di drammatica attualità .

GLI INDISCRETI REFERENDUM

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Agli esordi pareva un’avventura temeraria. Senza spettatori, con un manipolo d’attori, e nello scetticismo degli stessi promotori. Poi il pubblico si è via via gonfiato. Le tv hanno mandato qualche troupe a filmare lo spettacolo.

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