by Sergio Segio | 15 Agosto 2013 7:44
Poco tempo fa ho scoperto che alcuni miei libri erano stati proibiti nel carcere di Guantanamo. Pare che i prigionieri li richiedessero, gli avvocati glieli portavano, però i libri venivano respinti per il “contenuto non ammissibile”.
Incuriosito, ho rintracciato un detenuto cui piacciono i miei libri. Si chiama Nabil Hadjarab, è un algerino di 34 anni cresciuto in Francia. Ha imparato a parlare francese prima dell’arabo. In Francia ha parenti stretti e amici, ma non in Algeria. Da ragazzino, quando abitava vicino Lione, era una piccola promessa del calcio, sognava di giocare un giorno per il Paris St. Germain o qualche altra importante squadra francese di
calcio.
Tragicamente per lui, Nabil ha trascorso gli ultimi 11 anni in prigione a Guantanamo, per gran parte del tempo in isolamento. Da febbraio partecipa a uno sciopero della fame, e di conseguenza è alimentato a forza.
Per ragioni che hanno niente a che vedere con il terrorismo, la guerra o un comportamento criminale, l’11 settembre 2001 Nabil abitava pacificamente in una “guest house” algerina a Kabul, in Afghanistan. Dopo l’invasione americana, s’era sparsa la voce tra le comunità arabe che l’Alleanza afgana del nord stesse rastrellando e uccidendo gli arabi stranieri. Nabil s’era avviato assieme a molti altri verso il Pakistan nel tentativo disperato di sottrarsi al pericolo. Lungo il percorso, racconta, era rimasto ferito in un raid aereo e s’era risvegliato in un ospedale di Jalalabad.
In quei giorni gli Stati Uniti elargivano soldi a chiunque potesse consegnare loro un arabo straniero presente nella regione. Nabil è stato venduto agli americani dietro una ricompensa di 5mila dollari ed è stato portato a Kabul, in una prigione sotterranea. Lì, per la prima volta, ha conosciuto la tortura. Per recludere i prigionieri della sua guerra al terrore, i militari Usa hanno allestito un carcere improvvisato nella base aerea afgana di Bagram. Questo avrebbe in breve tempo acquistato una fama molto cupa, tanto che al suo confronto Guantanamo sembra un campo parrocchiale. Nabil è stato incarcerato lì nel gennaio 2002, assieme ai primi detenuti: non c’erano ancora le pareti, ma soltanto gabbie di rete metallica e filo spinato. Malgrado il freddo pungente, Nabil è stato costretto a dormire sul pavimento di cemento, senza coperte. Acqua e cibo erano scarsi. Durante gli spostamenti per i frequenti interrogatori, Nabil veniva percosso dai soldati americani, trascinato su e giù per le scale di cemento. Altri prigionieri sono morti. Dopo un mese a Bagram, Nabil è stato trasferito in un carcere di Kandahar, dove gli abusi sono proseguiti.
Per tutto il tempo della sua detenzione in Afghanistan, Nabil ha smentito con forza qualsiasi legame con Al Qaeda, con i Taliban, con organizzazioni o con chiunque fosse stato anche lontanamente legato agli attentati dell’11 settembre. In più, gli americani non avevano alcuna prova di un suo coinvolgimento, a parte qualche fasulla dichiarazione ricavata con la violenza da altri prigionieri nella camera delle torture di Kabul. Parecchi investigatori americani gli hanno detto che il suo è un caso di scambio di identità. Ciò nonostante, gli Stati Uniti hanno adottato regole severe per gli arabi in carcere: sono stati tutti trasferiti a Guantanamo. Il 15 febbraio 2002, Nabil è stato caricato su un aereo diretto a Cuba: ammanettato, legato e incappucciato.
Da allora Nabil è stato sottoposto a tutti gli orrori previsti dal manuale di Gitmo (nome in codice del campo di detenzione della base navale della Marina degli Stati Uniti a Guantanamo, ndt): privazione del sonno, deprivazione sensoriale, temperature estreme, isolamento prolungato, privazione della luce del sole, nessuno svago, scarsa assistenza medica. In undici anni, non gli è mai stata concessa la visita da parte di uno dei suoi familiari. Per ragioni note soltanto a chi dirige il carcere, Nabil non è stato sottoposto al waterboarding, la tortura dell’acqua con il finto annegamento, e i suoi legali credono che ciò dipenda dal fatto che egli non sa nulla e non ha nulla da rivelare.
Il governo degli Stati Uniti dichiara qualcosa di diverso. Nei documenti, i rappresentanti dell’accusa delle Forze armate affermano che Nabil fosse ospite di un alberghetto gestito da chi aveva collegamenti con al-Qaeda e che il suo nome è stato fatto da altre persone perché egli era affiliato ai terroristi. Ma Nabil non è mai stato accusato di alcun reato. Anzi, in due occasioni è stato giudicato pronto per un “trasferimento” o per essere scarcerato. Nel 2007 la commissione per la revisione dei casi dei detenuti, voluta dal presidente George W. Bush, ne ha raccomandato la liberazione. Ma non è successo niente. Nel 2009, un’ulteriore commissione d’indagine istituita dal presidente Barack Obama ha raccomandato il suo trasferimento. Niente. Non è accaduto niente.
Secondo le guardie, Nabil è un detenuto modello. Tiene la testa bassa e se ne sta alla larga dai guai. Ha perfezionato il suo inglese e insiste a parlarlo con i suoi difensori britannici. Lo scrive anche in maniera impeccabile. Per quanto possibile in circostanze a dir poco tremende, ha fatto di tutto per mantenersi in salute, fisicamente e psicologicamente. Negli ultimi sette anni, nell’ambito della mia attività per Innocent Project, finalizzata a liberare chi è stato incarcerato per sbaglio, ho incontrato molti uomini innocenti rinchiusi nel braccio della morte. Senza eccezioni, mi hanno riferito quanto sia crudele l’isolamento totale per un assassino che abbia ammesso il proprio crimine. Per un detenuto innocente, il braccio della morte è ancora peggio: lo spinge pericolosamente vicino alla pazzia, al punto da ritenere impossibile di poter sopravvivere un giorno di più.
Depresso e portato al punto di massima angoscia, a febbraio Nabil si è unito al gruppo in sciopero della fame. Non si è trattato certo del primo sciopero del genere a Gitmo, ma è stato quello che ha attirato maggiore attenzione. A mano a mano che il caso ha acquistato risonanza e Nabil e i suoi compagni di prigionia stavano sempre più male, l’Amministrazione Obama si è ritrovata con le spalle al muro. Il presidente si è giustamente arrabbiato, perché le promesse audaci ed eloquenti da lui fatte in campagna elettorale di chiudere Gitmo sono state dimenticate. All’improvviso si è trovato davanti alla raccapricciante prospettiva di detenuti che cadevano al suolo come le mosche, dopo essersi lasciati morire di fame sotto gli occhi di tutto il mondo. Invece di liberare Nabil e altri prigionieri che non costituiscono una minaccia per gli Stati Uniti, l’Amministrazione ha deciso di prevenire la morte alimentando a forza chi praticava lo sciopero della fame. Nabil non è stato l’unico “errore” nella nostra guerra al terrore. Centinaia di altri arabi sono stati rinchiusi a Gitmo e inghiottiti dal sistema senza essere mai accusati con un’imputazione precisa, per essere poi riportati nei loro paesi d’origine. (Questi trasferimenti sono avvenuti più clandestinamente e silenziosamente possibile.) Non ci sono state scuse ufficiali. Né dichiarazioni formali di rammarico. Nessun risarcimento, niente del genere. Gli Stati Uniti hanno platealmente sbagliato, ma non lo si può ammettere.
Nel caso di Nabil, gli agenti delle intelligence e delle Forze armate statunitensi si sono affidati a informatori corrotti pronti a far man bassa dei soldi degli americani o, ancora peggio, a spie in prigione, disposte a barattare informazioni fasulle in cambio di dolciumi, riviste porno, e talvolta anche solo una pausa nelle percosse. La settimana scorsa l’Amministrazione Obama ha annunciato che sta per trasferire altri prigionieri arabi in Algeria. È probabile che Nabil possa essere uno di loro, e se ciò accadrà si commetterà un altro tragico errore. Il suo incubo continuerà. Sarà un senzatetto. Non riceverà aiuto alcuno per reintegrarsi in una società dove molti nutrono ostilità nei confronti degli ex detenuti di Guantanamo. Invece di dimostrare di avere fegato ed ammettere di aver commesso un errore, le autorità statunitensi si libereranno di lui, lo abbandoneranno per le strade di Algeri e se ne laveranno le mani.
Che cosa dovrebbero fare? Ovvero, che cosa dovremmo fare?
Prima di tutto ammettere l’errore commesso e presentare formalmente le nostre scuse. In secondo luogo, provvedere a un risarcimento. I contribuenti statunitensi hanno speso due milioni di dollari l’anno per tenere Nabil rinchiuso a Gitmo per 11 anni: ora dovrebbero dargli almeno qualche migliaio di dollari per rimettersi in piedi. Terzo, esercitare pressioni sulla Francia per permettergli di rientrare. Suona tutto semplice. Ma nulla di ciò accadrà mai.
© The New York Times 2013 Traduzione di Anna Bissanti
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