IL PIAVE, L’EROE DI D’ANNUNZIO
PADOLA (Dolomiti). E via verso le Dolomiti, lungo il confine austriaco, sotto uno schieramento di monti bilingui. Coglians è Hohe Warte; Creta Verde è Steinwand; Monte Antola Steinkarspitz. Nessuna assonanza né comunione di significati. In pochi altri posti come sulle Carniche lo spartiacque ha un significato più meticolosamente etnico. Di là è pieno di figli di emigranti italiani e di qua trovi tanti cognomi come Hofer, Piller e Kratter, ma la demenza naziona-lista, madre di tutte le guerre, ha voluto che ogni montagna, per meglio dividere, avesse due nomi. È la vecchia storia delle cime sacralizzate a baluardo; una malattia che ha fatto del ’15-’18 un conflitto inchiodato sui dislivelli.
Il Piave ne fa le spese da allora. Si chiamava “la Piave”, ma nel 1918 il Vate delle retrovie, Gabriele D’Annunzio, decise che non poteva essere femmina. Maschio doveva diventare, per Dio, se aveva respinto il nemico dopo Caporetto. Così, mentre in Francia i fiumi di guerra come la Marna o la Somme conservarono i loro nomi di ninfe, in Italia mille acque cambiarono sesso per imitare il Piave, in una moda patetica incoraggiata dal fascismo. La Brenta divenne il Brenta, la Livenza il Livenza. Tutti furono reclutati per la grandezza della nazione e trasformati in un deserto di ghiaie dai padroni delle dighe. Ma il più massacrato fu il Piave, prima eletto “fiume sacro della Patria” e poi ridotto a uno ouadi libico. C’è sempre l’imbroglio dietro alla retorica.
Santo Stefano di Cadore, Dosoledo. Mucche e campanacci, gerani ai balconi, praterie da cartolina: eppure qualcosa di irrisolto sul filo di questo millimetrico spartiacque. Qualcosa che comincia dal 1918, dalla conquista italiana dell’Alto Adige, e finisce — forse — con l’attentato di Cima Vallona, un passo remoto sul confine delle Carniche. Lì si consumò nel 1967 l’ultimo atto di guerra contro l’Italia, con un carabiniere, un alpino e due parà incursori fatti a pezzi dalle bombe del Comitato liberazione Sudtirolo. Mandanti ed esecutori, tutti stranieri, furono individuati, ma non si fecero nemmeno un giorno di galera. Per non avvelenare il processo di distensione si creò un vulnus che solo la memoria corta degli italiani consente di archiviare.
Sono un bastardo di confine, ma la parte italiana di me si sveglia tutta quando mi avvicino al Sudtirolo. Esattamente ciò che vuole la trappola delle contrapposizioni.
Sopra Padola le scogliere di Dio scintillano di rigagnoli nel tramonto. In cima a un nevaio c’è il Passo della Sentinella, m.2717, una pazzesca finestra incastrata fra la Croda Rossa di Sesto e Cima Undici, contesa per due anni da austriaci e italiani. È lì che vogliamo andare, ma amici del Generale ci dissuadono. «Non salirete mai più, con tutta quella neve». Ci tentano con vino e salame nella casa del “Nin”, un alpino leggendario chiamato da qualche anno al cospetto del Signore delle cime. «L’unico atto di disobbedienza della mia vita militare l’ho compiuto per lui, al suo funerale» narra commosso Penna Bianca. «Il mio superiore non voleva che andassi e io ho ignorato l’ordine. Ho preso guanti e cappello e sono venuto ».
Salita al rifugio Berti tra mucche, cascate in piena e incendio di crode verso la valle del Piave.
Una finestra di bel tempo, finalmente, e il lusso di essere soli con i custodi, Rita Zandonella e Bruno Martini, figli generosi del Comelico. Ci esortano a salire, domani la neve dovrebbe essere in condizioni perfette. Ci raccontano del passo, preso nell’estate del ’15 dalla mitica guida di Sesto, Sepp Innerkofler — poi accoppato da un alpino sulla cima del Paterno — e riconquistato dagli italiani in un’azione da manuale nel tremendo inverno del 1916.
Quando Bruno mi scodella il minestrone gli chiedo a cosa è servito conquistare quella posizione, se non portava da nessuna parte.
«È servito eccome, se no oggi a Padola parlavamo tedesco. E io di parlar tedesco non ne ho proprio voglia».
Ma cosa farete qui per ricordare la guerra?
«Mah. Ho saputo che vogliono fare un museo in un rifugio più in alto del Berti. Ma come ci riusciranno Dio solo sa, visto che qui ci rubano i nostri cimeli».
Ci risiamo: i collezionisti d’assalto, un’italianissima pestilenza.
La sala da pranzo è decorata di elmi, fucili, corazze, cartucciere. Ed è solo ciò che rimane di ripetute incursioni di ladri.
Gli chiedo come riescano a rubare.
«Spaccano le porte quando il rifugio è chiuso. Oppure aspettano che noi si vada a dormire per prendere quello che vogliono e filare nel buio».
L’indomani sveglia presto e via su per il nevaio, in fretta prima che lo squarcio di sereno si richiuda. Sensazione oscura che qui la guerra non sia il grumo di ossa, ferri, terra e ruggine che ho trovato sul Carso, ma una memoria più minerale, adatta al combattimento rarefatto d’alta quota. Il Generale gradina felice sulla strada dei Mascabroni, i briganti dal grande cuore conquistatori del passo, così battezzati dal loro capitano Giovanni Sala. Furono protagonisti di un’impresa più alpinistica che militare, un lusso possibile solo a queste pattuglie speciali, estranee alla guerra di massa e lontane dagli alti comandi. Truppe scelte, riordinate per nuclei e non per plotoni.
Salita magnifica, sotto un fantastico transumare di nubi. Pochi zig-zag, il pendio è preso per la massima pendenza. Ogni tanto ferri nella neve, storti come i ramponi sulla gobba della Balena Bianca. Merenda sotto il paretone della Croda Rossa, poco sotto i baraccamenti italiani. Ci siamo quasi, ora non resta che traversare sulla forcella, ma il cielo è ridiventato di piombo e decidiamo di scendere, non si sa mai. La neve è perfetta, dura ma non troppo, e per non scivolare basta picchiare col tacco dello scarpone.
L’alpenstock di Rigoni Stern consente evoluzioni inedite, così esco dal canalone con una lunga scivolata per scarponi soli, col bastone da montagna a far da perno e sostegno nelle curve di uno slalom gigante senza sci.
(15 — continua)
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