IL NEMICO A PASSO DI VALZER
CAPORETTO. Da dieci ore è uno scroscio senza tuoni sul confine. Diluvia come nei giorni dei morti, come quel fine ottobre del ’17 quando gli austro-tedeschi sfondarono lungo il Natisone, lasciando gli italiani isolati sulle alture. «Si sono mossi in una giornata così» fa Antonio De Toni, cercando nella nebbia e nella memoria. Li sente passare, ne ode i comandi secchi, li vede infiltrarsi come formiche. De Toni fa la guida su questi monti, ne conosce ogni pietra. «Non si vedeva niente», ripete al Generale che ci accompagna. «Sono passati invisibili, in mezzo agli italiani. Preceduti dai gas».
Conquista le cime e avrai il territorio, dicevano i manuali austriaci e italiani, che da 29 mesi si massacravano per quote spesso irrilevanti. Ma quell’autunno arrivarono i tedeschi di Otto von Below con altre idee: penetrazione di fondovalle con pattuglie veloci e mitragliatrici portatili. 2.700 treni di soldati e cannoni furono spostati dalla Francia e dai Carpazi per essere concentrati qui. Poi il bombardamento fu mirato non sulle prime linee ma sulle retrovie, per tagliare i telefoni tra il fronte e gli alti comandi.
«Una mattina cessò ogni sparatoria, ogni rumore da parte austriaca, anzi arrivò una musica beffarda e ritmata al valzer. Passò qualche attimo di stupore, i nostri si girarono e videro alle spalle il nemico schierato in forma di parata d’attacco, a campo libero. Il mondo sembrava capovolto ». Ho tra le mani un inedito, una lettera di un coetaneo di Bologna, Lorenzo Sarno, che trascrive il racconto di suo nonno, Remo Salomoni. « Lo stupore fu gelido, generale, doloroso. Il nemico aveva schierato in maniera irridente una linea di cavalleggeri: eleganti e spavaldi lancieri d’altri tempi, i quali però precedevano ben altra fanteria tedesca, terribilmente e modernamente attrezzata».
Seguì la resa, come in tanti reparti rimasti isolati e senza ordini. Il generale Badoglio aveva vietato l’uso dei cannoni senza disposizioni dall’alto, disposizioni che mai arrivarono, e questo non solo per il taglio delle linee telefoniche. Ci fu anche la latitanza del Comando. Badoglio fu incredibilmente irreperibile all’inizio dell’attacco ma poi, da bravo voltagabbana vicino al potere, sopravvisse al suo fallimento per diventare maresciallo d’Italia. Il generale Cappello si diede malato per 24 ore. Il generalissimo Cadorna ci mise un giorno a capire la gravità dell’evento. E quando la disfatta apparve chiara non seppe fare di meglio che accusare di disfattismo i soldati.
In Slovenia la nebbia si squarcia sul Monte Nero coperto di neve, un candido piano inclinato simile alla tavola di una lavandaia che i friulani chiamano “Lavadôr”. «Fummo travolti da un modo nuovo di combattere», riflette il Generale, e sento che fatica a trovare le parole. «Un modo di combattere al quale l’esercito italiano, rigidamente gerarchicizzato e con autonomia dei comandi subordinati prossima allo zero, era assolutamente impreparato». Io non posso vedere solo l’aspetto militare. Penso che Caporetto fu la situazione- tipo di un’Italia dello scaricabarile che premia ruffiani, imboscati e lavativi. L’Italia di sempre, quella delle congreghe di potere coalizzate contro i liberi che pagano le tasse e non si danno malati quando è l’ora.
Tutto conferma che i nostri non persero l’onore e seppero battersi ove possibile. Ieri sera, con il Generale, sono andato a trovare un recuperante cividalese, Bepi Furlan, uno con la mano rovinata da un disinnesco disinvolto e la faccia segnata da una cicatrice tipo studenti spadaccini di Gottinga, e ovunque nella sua cantina abbiamo trovato i segni di una lotta furibonda. Tra salami e grappe al tarassaco, sotto lo sguardo di un gatto nero tra gli scaffali, sono venuti fuori elmetti, bombe a mano, fucili e grossi proiettili di bombarde. Quel favoloso antro dove si accumulavano micidiali Schrapnel e damigiane, asparagi selvatici sott’olio e caricatori di mitragliatrice, cavatappi e otturatori di granate, smentiva Cadorna più di qualsiasi museo.
Squarcio di sole, l’Isonzo tuona fuori dalle gole dette Za Gradom, ben presidiate da trincee in cemento. Acqua verdissima che sputa ferri a ogni piena, odore di limo, trote immobili nelle pozze, un ponte sospeso per andare a piedi sull’altra sponda. Leggo in ogni riga del “Giornale di guerra e prigionia” di Carlo Emilio Gadda lo sconcerto, l’umiliazione dei soldati costretti ad abbandonare il Monte Nero, il Matajur, le alture del Kolovrat, e infine a sgomberare Caporetto in una confusione tremenda di macchine, uomini e animali. Vacche, cannoni, depositi di munizioni fatti saltare in aria, migliaia di muli allo sbando, la fuga terrorizzata delle prostituite del bordello italiano, cui nessuno toccherà un capello.
Sopra, sul colle del sacrario italiano, la navata della chiesa capta come un grande orecchio tutti i rumori della valle: il tuono del fiume, il brontolio del temporale, un camion di passaggio, le risa di giovani canoisti sulle ghiaie verso Tolmino. All’interno, l’affresco di un soldato su una cima, accanto a un compagno morto, che scaglia una pietra in un burrone. Geometrie fasciste (Caporetto divenne italiana dopo il ’18) un po’ discutibili, ma solidità di materiali. Nuovamente una memoria italiana che sembra tenuta meglio dagli sloveni che dai diretti interessati.
Varchiamo la porta del museo di Caporetto sotto un vero cannoneggiamento. Tuoni secchi, cupi, lunghi e ripetuti dalle pareti della gola. Dentro, immagini spaventose di mutilati e lettere dal fronte, foto di retrovie e graffiti di prigionieri. Pochi musei della Grande Guerra mi son sembrati così mirati alla pace. «Questi monti sono talmente pieni di reperti, e noi tornavamo in valle sempre talmente carichi di roba, che un giorno ci siamo detti: perché non fare un museo?» ci dice Vojko Hobic, uno dei custodi, prima di metterci in mano una grappa alla genziana. Oggi per quelle sale passano 60mila visitatori l’anno. Un vero monumento all’Europa.
(13 – continua)
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