by Sergio Segio | 14 Agosto 2013 6:35
E bisogna decidere senza dimenticarsi di un dato di fatto, e cioè che l’Europa è l’unica utopia ragionevole che noi europei siamo stati capaci di immaginare. Di utopie politiche atroci — paradisi teorici trasformati in inferni pratici — ne abbiamo inventate a iosa; di utopie ragionevoli, solo questa. Però, anche se è un epifenomeno, una piccola crisi dentro la grande crisi europea, la crisi spagnola presenta caratteristiche specifiche. In questo momento la Spagna ha tanti problemi, ma se dovessi isolare il principale direi che sono i partiti politici; o per meglio dire: il dominio quasi assoluto che i partiti politici esercitano sulla vita pubblica.
È una cosa che viene da lontano. A metà degli anni Settanta, quando iniziava la transizione dalla dittatura alla democrazia, i partiti quasi non esistevano o esistevano soltanto formazioni fragili e inaridite da quasi mezzo secolo di clandestinità.
E una delle maggiori preoccupazioni dei nostri «padri fondatori» fu di creare partiti forti; era una scelta non solo sensata, ma indispensabile: i partiti sono l’unico canale verosimile delle preoccupazioni e aspirazioni della gente, non c’è vera democrazia senza partiti. Il problema è stato che, soprattutto a partire dalla metà degli anni 80, quando la democrazia si stava assestando e si stava mettendo in moto un ciclo di prosperità che per oltre vent’anni è sembrato non avere fine, i partiti hanno debordato, prendendo il controllo della giustizia, delle casse di risparmio, degli organi di vigilanza dei mercati e della Corte dei conti. I partiti hanno finito per colonizzare tutto. E il problema è che i partiti sono al tempo stesso il problema e la soluzione: solo i partiti possono trasformare questa partitocrazia in una democrazia reale. Lo sappiamo, è molto difficile, ma i partiti spagnoli devono sapere che è in gioco, semplicemente, la fiducia delle persone nella democrazia.
Qualcuno si ricorda del miracolo spagnolo? Qualche anno fa la stampa estera coniò questa espressione. L’idea era più o meno la seguente: la Spagna era uscita da quarant’anni di dittatura, aveva costruito una democrazia e aveva dato inizio a un’età dell’oro propiziata da un’esplosione di talento, energia e creatività rimasti repressi troppo a lungo. Dalla metà degli anni 90 la Spagna era una delle locomotive d’Europa, per 15 anni ha avuto un tasso di crescita intorno al 4% del Pil e nel 2006 ha superato l’Italia come reddito pro capite; il miracolo era anche politico: dopo trent’anni di democrazia — il più lungo periodo di libertà nella storia moderna del Paese — certi settori della sinistra europea vedevano Zapatero come il prototipo di una sinistra finalmente rinnovata, una specie di incrocio tra Pericle e Madre Teresa di Calcutta. E che dire del resto? Avevamo Nadal e il Barça, Adrià e Almodóvar, avevamo perfino il giudice Garzón, che impartiva giustizia in tutto il mondo come un Batman togato. Ora è tutto il contrario: ora il miracolo spagnolo è finito e quello che rimane è una catastrofe. Si è scoperto che il boom economico era un fantasma creato dalla doppia illusione dell’edilizia e dei consumi: ora l’edilizia si è esaurita e i consumi sono colati a picco; anche la crescita si è fermata. Anche Zapatero ora è un fantasma del passato, e la Spagna è un Paese appena definibile come democratico, incapace di affrontare la sua storia. Come se non bastasse, Nadal perde al primo turno a Wimbledon, il Barça viene umiliato dal Bayern, Ferran Adrià si prende una lunga vacanza e l’ultimo film di Almodóvar è Gli amanti passeggeri.
È il caso di dire che queste due versioni della Spagna sono false? Lo sono, non perché non contengano molte verità, ma perché mescolano verità e menzogne: non eravamo così meravigliosi prima e non siamo così orrendi adesso. Sia come sia, gli ultimi trenta e passa anni sono stati, da quasi tutti i punti di vista, e non grazie a un miracolo ma grazie allo sforzo di tutti, i migliori della storia moderna della Spagna. Non è trionfalismo, è un’ovvietà: a metà degli anni 70 la Spagna era un Paese del terzo mondo sottoposto a una dittatura abietta; ora è un Paese democratico che ha realizzato finalmente il sogno di tutti i progressisti spagnoli da due secoli e mezzo: integrarsi in Europa. Il che significa che la Spagna ha molte più speranze di farcela adesso che trent’anni fa. Come ho cercato di spiegare, se ci riuscirà o meno dipenderà in gran parte dai partiti politici: ma soprattutto, non ci illudiamo, dipenderà da noi stessi.
(Traduzione Fabio Galimberti)
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