Il fattore iraniano

by Sergio Segio | 28 Agosto 2013 7:10

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 PRIMA o dopo il G-20 di San Pietroburgo, «in casa Putin »? Dipenderà dalla velocità di costruzione di un sostegno internazionale che legittimi il blitz militare come un atto di giustizia. È l’Iran ad avere convinto un riluttante presidente americano: lasciare impunito Assad sarebbe un errore strategico per il “messaggio” implicito che questa inazione invierebbe a Teheran. Armi chimiche e bomba nucleare ricadono nella stessa categoria: distruzione di massa. Che credibilità resterebbe al leader degli Stati Uniti nel combattere i progetti nucleari degli ayatollah, se l’uso di armi chimiche per massacrare donne e bambini rimane senza conseguenze, in un paese protetto e aiutato proprio dall’Iran? E il castigo da infliggere ad Assad, per quanto “mirato”, non deve solo puntare a neutralizzare gli arsenali di armi chimiche, bensì le basi militari da cui sono partiti quegli atroci attacchi col gas nervino. La punizione deve raggiungere i responsabili, dice il Pentagono. Deve anche indebolire l’apparato militare di Damasco. Senza provocare disastri ambientali (esplosioni accidentali di depositi di gas con spargimento nell’atmosfera) ed evitando il rischio
che le stesse armi chimiche cadano nelle armi delle fazioni più radicali dell’opposizione, vicine ad Al Qaeda. Quasi una Mission Impossible?
Obama in queste ore è deciso a non commettere tre errori dei suoi predecessori. Il primo precedente che ossessiona Obama, ovviamente, è l’arroganza imperiale di George W. Bush che sfociò nel disastro iracheno. Obama quand’era giovane senatore dell’Illinois si oppose alla guerra, e quella scelta gli conquistò molti favori della base democratica nella corsa alla nomination contro Hillary Clinton (2008). Obama ha promesso entro
la fine di questa settimana le prove che l’attacco chimico contro la popolazione civile è stato perpetrato dalle forze di Assad: sa che dovranno essere ben più convincenti delle “prove” sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein che Bush (attraverso Colin Powell) presentò all’Onu per giustificare la guerra del 2003. Altro errore da evitare è l’unilateralismo, donde l’importanza di costruire una coalizione quanto più vasta possibile, che presenti l’intervento militare come una difesa della legalità, contro una gravissima violazione delle leggi internazionali. In queste ore Obama
sta appunto edificando la legittimità, a cominciare dalla Nato e dalla Lega araba. Con un messaggio preciso: quella che sta per iniziare non è una guerra, è un’operazione limitata, un castigo esemplare, non l’inizio di un’escalation. Obama vuole passare alla storia come il presidente che ha disimpegnato l’America da due guerre (Iraq e ben presto Afghanistan), non vuole cominciarne una terza.
Secondo errore da evitare è quello che commise Ronald Reagan nel 1986 quando lanciò un blitz contro Gheddafi, per punirlo di alcuni attentati terroristici
(e scoraggiarlo dalle sue ambizioni nucleari). Ma lasciò trapelare che l’intenzione vera del bombardamento aereo sulla Libia era l’uccisione di Gheddafi stesso. Obiettivo fallito. Obama ha istruito i suoi consiglieri perché siano chiari su questo punto: l’attacco alla Siria non avrà come obiettivo il cambio di regime, né l’eliminazione di Assad, che vanno perseguiti con mezzi politici.
Terzo errore da evitare è il “mission creep”, ovvero lo slittamento progressivo degli obiettivi di una missione: sindrome che colpì il presidente democratico John Kennedy in Vietnam. C’è sempre il rischio, per esempio, che una risposta di Assad contro le forze Usa scateni un’escalation di reazioni e controreazioni. Resta utile invece il precedente di Bill Clinton in Kosovo (1999): fece giurisprudenza per il “dovere d’ingerenza umanitaria”. E fu anche l’inizio della fine per Milosevic.
Tra i presidenti democratici Obama non cessa di ricordare anche Jimmy Carter. L’unico leader Usa, da 70 anni in qua, a non avere scatenato una sola guerra. Eppure per gli americani Carter rimane un perdente, associato a un disastro in politica estera: la crisi degli ostaggi nell’ambasciata Usa di Teheran. L’Iran, appunto: la vera ragione per cui Obama non può permettere che Assad la faccia franca anche stavolta.

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