IL FANTASMA DEL GIOVANE ROMMEL

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KOLOVRAT. Praterie, papaveri e neve fresca a distanza: euforia trigonometrica di color bianco, rosso e verde. Dalla pianura lo skyline del fronte verso Caporetto è nitidissimo. Il Generale guida allegro il suo argenteo fuoristrada e individua le montagne con la fedeltà di un Gps. Canin, Matajur, Montasio. Stol, Caldarenza, Joanaz. Nomi lontani dall’Italia padrona di Roma e Milano. Ma è uno squarcio passeggero, da ovest arrivano nuove armate nere. Il Natisone è gonfio e rosicchia pezzi di sponda, dopo il diluvio della notte.
Si va sul Kolovrat, la cordigliera che fa da confine con la Slovenia e s’affaccia sul precipizio dell’Isonzo. Lassù, in un posto chiamato Casoni di Solarie, il 24 maggio del ’15 fu accoppato il primo italiano: un alpino di nome Riccardo Di Giusto. Quei monti sui mille metri, complicati e selvosi, divennero presto retrovia dopo lo sfondamento italiano del ’15 sull’Isonzo, e due anni dopo scontarono sulle loro trincee — nel dramma di Caporetto — uno dei capolavori tattici del conflitto. La manovra di aggiramento di un distaccamento di truppe d’assalto guidate da un primo tenente di nome Erwin Rommel.
Ricomincia a piovere. La boscaglia sfiata vapori, l’auto si avvita su tornanti che strapiombano sui villaggi. Valli italianissime, ma i nomi dei Caduti sulle lapidi fanno Clodig, Bucovaz, Feletig, Tomasetig. Un tricolore sventola sulla frazione deserta di Oznebrida, persa tra cocuzzoli di nome Kuk, Verh e Cras. Che diluvio, e che tempesta identitaria, quassù. Al passo la temperatura scende a cinque gradi, nebbia sale dalla Slovenia e non ci resta che barricarci al rifugio Casoni di Solarie, per un tè bollente, con la pioggia che tambureggia sulla veranda.
Mulattiera di arroccamento sul versante italiano, la mantellina da pioggia è strattonata dal vento. Per pochi minuti le nubi si squarciano sul dente innevato del Monte Nero, il Bogatin e brandelli di Tricorno. Le mie Alpi Giulie, fumanti di vapori bianchi nei canaloni. Poi tutto si richiude. Sulla linea di cresta incontriamo ricoveri e trincee, impronte di mountain bike nel fango e poche tracce del confine cancellato da Schengen.
«Una pacchia in confronto al Carso» ghigna l’alpino. Una comoda retrovia di montagna, con le latrine, e la sbobba che arrivava calda dalle retrovie. Una guerra panoramica, e profumata di fiori, un lusso rispetto all’inferno olfattivo del San Michele, dove si mangiava, dormiva e defecava nello stesso posto. Li vedo, i “boce”, che si fumano una sigaretta e nei turni di guardia contano le stelle sopra il Mrzli Vrh.
Ma è umiliante scoprire che sul lato sloveno le nostre — ripeto nostre, non austriache — trincee sono curate assai meglio: pulite col decespugliatore, ben consolidate e ricoperte con tettoie di legno. Dalla parte italiana cartelli striminziti; eppure i contributi europei sono identici per i due inquilini del Kolovrat. Ritorna a ogni tappa l’amaro in bocca di appartenere a un Paese di furbi senza memoria.
Ma brucia ancora di più, forse, vedere le magnifiche strade costruite qua intorno dai nostri minatori-ciclisti e dalle allegre compagnie di zappatori. Tuttora perfette, con solidissimi muri di contenimento. Gallerie, ricoveri, prese d’acqua, piazzole: tutto a regola d’arte, segnato da una solidità dei materiali nettamente superiore a quella di oggi. Nei boschi troviamo una fontana segnata dall’emblema di un putto, una commovente deità pagana scolpita dai minatori in grigioverde.
Il Generale ha un attacco di nostalgia per gli alpini dell’Orobica, brigata disciolta come tutto ciò che funziona nel Paese. Gente capace di straordinari exploit organizzativi.
Gli dico che nel ’15-’18 l’Italia non aveva ancora perso l’uso delle mani.
Lui ammette: «Avevamo un genio militare straordinario, quello che ci ha fregati è stata la rigidezza gerarchica».
Penso che non abbiamo imparato affatto la lezione, che la crisi economica di oggi è peggiorata dalla sordità contabile di amministratori verso la fanteria delle loro stesse aziende. Forse ci avviciniamo al buio mistero di Caporetto.
Sento il picchio nella foresta. Mi giro e oltre le betulle, in un nuovo squarcio di nubi, ecco la pianura. Così devono averla vista gli austro-tedeschi in quel piovoso ottobre del ’17: la Bainsizza, il Carso, la Bassa Friulana, il luccichio del Tagliamento, la laguna di Marano e l’Istria oltremare.
Il Generale dilaga, vola dalle scorribande di Rommel alle basi di Gladio. Forse lo fa per dirmi che questo è un vero “limes” dove non contano gli anni ma i secoli. Su un confine come questo non basta dire “guerra”, devi anche dire quale: la Grande, la seconda, o la guerra fredda. Sul Kolovrat e dintorni è tutto un sovrapporsi di capanne partigiane, garitte dei soldati di Tito e bunker della Nato contro il Patto di Varsavia. Su un albero trovo ancora incise le parole d’amore in cirillico di un soldato jugoslavo.
Scendiamo lungo il crinale sopra la riva destra dello Judrio mentre dal Veneto arriva il sereno a vele spiegate. Nei boschi, segni frequenti di sparatorie attorno alla quarta linea delle postazioni italiane. Caricatori, bossoli, crateri di granate. Presso la chiesetta di San Nicolò, casse e casse di munizioni trovate dai recuperanti. Ma ci sono anche i racconti. Vicino alla frazione di Tribil si vide un soldato correre verso i nemici con due zaini di bombe a mano. E a San Leonardo tutti sanno dove cadde il generale Giovanni Villani, 19. a divisione, suicidatosi per non cadere in mano al nemico.
«Qui, prima di arrendersi, hanno combattuto, e tanto», brontola l’alpino. Cadorna parlò di vigliaccheria e disfattismo, ma noi troviamo i segni di tante piccole Termopili. In fondovalle, il Natisone sputa ancora la ferrazza di quei giorni.
Merenda sull’erba con pane, salame e una bottiglia di rosso accanto alla tomba di quattro tedeschi caduti, assieme a una coppia di giovani — tedeschi anche loro — in viaggio sul Sentiero Italia. Sembra quasi più facile fare l’Europa su confini di sangue come questo.
(12 – continua)


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