IL COMPUTER DI ISIDE
A scuola ci insegnano che siamo tutti figli delle religioni ebraica e cristiana, e delle civiltà greca e romana: per capire da dove veniamo e chi siamo, dunque, ci suggeriscono di leggere la Bibbia e di studiare il greco e il latino. Peccato che gli Ebrei e i Greci, in realtà, molta della sapienza che ci hanno tramandata l’abbiano imparata e importata dall’Egitto.
L’idea che «in principio era il Verbo», ad esempio, risale alla creazione del mondo attraverso la parola da parte del dio Ptah, dal quale il paese prese il nome di Het-Ka-Ptah, “Casa dello Spirito di Ptah”. Il monoteismo fu invece inventato dal faraone Akhenaton, padre di Tutankhamon: il famoso “King Tut”, noto per il tesoro rinvenuto nel 1922 da Howard Carter nella sua tomba. I dieci comandamenti furono mutuati dal Libro dei morti, e costituivano la base per il giudizio delle anime da parte di Osiride.
Quest’ultimo ha fornito l’ispirazione per il mito dell’uomo divino che, dopo essere stato tradito e ucciso, scende agli inferi e risorge. La storia di Iside e del figlio concepito miracolosamente, infine, ha ispirato l’iconografia della Vergine e del bambinello: addirittura, molti templi della valle del Nilo dedicati alla prima, furono poi tranquillamente trasformati in chiese consacrate alla seconda.
Mitologia a parte, il vero lascito egizio è la sua matematica, che costituisce il fondamento della nostra scienza e della nostra tecnologia. Anzi, dell’intera cultura umana, visto che sembra che la scrittura sia nata proprio in Egitto, più di cinquemila anni fa, per evoluzione del primitivo sistema di notazione contabile, da cui poi si sviluppò anche l’aritmetica. Nei musei di mezzo mondo si possono osservare le statue che mostrano i contabili egizi, e i successivi scribi, assisi con i loro strumenti di lavoro: papiro e rullo, calamaio e pestello, pennello e righello …
Gli Egizi non facevano però i conti nel sistema decimale che noi impariamo fin dalle elementari. Sorprendentemente, usavano invece il sistema binario dei computer moderni, tre millenni prima che Leibniz credesse di averlo inventato nel 1679. E anche due millenni prima dei Cinesi e uno prima degli Indiani, che lo riscoprirono indipendentemente molto dopo gli Egizi.
Questo sistema ha un vantaggio didattico, perché richiede di conoscere solo la tabellina del 2. Per capire come questo basti a fare qualunque moltiplicazione, proviamo a vedere come un egizio avrebbe moltiplicato 7 per 9, senza conoscere la tabellina di nessuno dei due numeri. Anzitutto, avrebbe generato la sequenza 1, 2, 4, 8, …, fino a trovare una potenza di 2 che superasse il primo fattore: in questo caso, poiché stiamo moltiplicando 7, il numero cercato sarebbe appunto 8. Poi l’egizio avrebbe notato che 7 è uguale a 1 più 2 più 4. E avrebbe raddoppiato successivamente il secondo fattore, cioè 9, in modo da moltiplicarlo per questi numeri, ottenendo 9, 18 e 36. Sommando il tutto si ottiene 63, che è appunto 7 per 9.
Se invece avesse voluto moltiplicare 6 per 9, avrebbe notato che 2 più 4 fa 6, e avrebbe considerato solo 18 e 36, che sommati fanno 54. Il motivo per cui il procedimento funziona sempre, è che nel loro sistema binario ogni numero si può scrivere come somma di potenze di 2, esattamente come nel nostro sistema decimale ogni numero si può scrivere come somma di potenze di 10.
Naturalmente, oltre a moltiplicare i numeri, bisogna anche saperli dividere. Ancora più stranamente che per gli interi, gli Egizi non usavano frazioni qualunque, ma solo quelle con numeratore 1, che sono appunto passate alla storia come frazioni egizie.
Qui le cose si complicano, ma diventano anche stimolanti: se si dedicasse in tutte le scuole un’ora la settimana a queste frazioni, invece che alla mitologia egizia, certo i cervelli dei nostri studenti ne risentirebbero positivamente! Così come sono, invece, avranno qualche difficoltà a esprimere da soli in frazioni egizie non ripetute anche dei numeri razionali semplici, come 3/5: per curiosità, una possibile risposta è 1/3 più 1/5 più 1/15.
La geometria dell’antico Egitto, comunque, è molto più nota della sua aritmetica. Basta visitare, sulla riva occidentale del Nilo a Luxor, la tomba di Menna, “scriba dei campi del Signore delle Due Terre”, per poter osservare in azione nei suoi dipinti uno dei primi geometri della storia, nei due sensi della parola: l’agrimensore e il matematico. In greco “geometria” significava appunto “agrimensura”, e in egiziano i praticanti di quest’arte venivano chiamati
harpedonaptai,
“tenditori di funi”: la corda tesa era infatti uno strumento versatile, che poteva allo stesso tempo servire da riga e da compasso.
Mediante questo strumento, e millenni prima che i Greci ne divenissero i più sofisticati interpreti, gli Egizi stabilirono i rudimenti della geometria. In particolare, scoprirono le nozioni di poligono e di solido regolare, e ne ricavarono l’ispirazione per la forma che oggi noi associamo alla loro cultura: la piramide a base quadrata, che rappresenta una versione semiregolare del tetraedro, e costituisce una metà dell’ottaedro. Non a caso, la tradizione esoterica riteneva che le piramidi reali che si ergevano sopra il terreno si riflettessero sottoterra, a completare appunto un ideale ottaedro.
Le più famose piramidi sono ovviamente quelle di Giza, vicino al Cairo. Furono costruite circa quattro millenni e mezzo fa, nel giro di un solo secolo, da tre generazioni successive di faraoni: il padre Cheope, il figlio Chefren e il nipote Micerino. I loro lati sono quasi perfettamente allineati ai quattro punti cardinali, e le diagonali sudorientali delle prime due stanno praticamente sulla stessa retta.
La realizzazione delle piramidi rappresentò una sfida non solo tecnologica, ma anche intellettuale. Per costruirle mantenendo una pendenza fissa delle rampe di lavoro, gli Egizi dovettero tenere costante il rapporto tra quanto volevano avanzare e quanto dovevano costruire in altezza, arrivando così alla definizione della moderna cotangente dell’angolo formato dalle facce con la base. Per calcolare i volumi essi trovarono invece la formula, oltre che per la piramide stessa (base per altezza, diviso tre), anche per un suo qualunque tronco (somma delle basi e della radice del loro prodotto, per altezza, diviso tre): una formula, quest’ultima, considerata la vetta della loro matematica.
Un altro monumento che testimonia la perizia geometrica degli Egizi fu il faro di Alessandria, una della sette meraviglie del mondo, distrutta da un terremoto nel 1303. Gli storici raccontano che era costituito da una base quadrata, un tronco ottagonale e una sommità cilindrica. L’ottagono non era regolare, ma tagliava gli angoli del quadrato a un terzo dei lati: aveva dunque all’incirca le dimensioni del cerchio inscritto nel quadrato. Dalla relazione fra le tre figure, si deduce facilmente un valore approssimato di 3,16 per pi greco: un errore di solo il due per cento rispetto al famoso 3,14 trovato da Archimede, con un tour de force matematico di tremenda complessità.
Dei matematici egizi non ci sono pervenuti nomi memorabili, ma di alcuni loro allievi sì: sia Talete che Pitagora, infatti, hanno studiato in Egitto. E lo stesso teorema di Talete, sulla proporzionalità dei lati di triangoli simili, scaturì dal problema che gli fu posto a Giza, di calcolare l’altezza della Grande Piramide: problema che lui risolse facendo le proporzioni fra le ombre del monumento e di un bastone piantato in terra. In quel momento si effettuò un ideale passaggio di testimone dalla scuola egizia a quella greca: che non nacque già formata, come Venere dalla spuma del mare, ma scaturì invece da una tradizione millenaria, sbocciata e fiorita come un loto sulle acque del Nilo.
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