IL CIELO DEGLI AVIERI GENTILI

by Sergio Segio | 27 Agosto 2013 6:24

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MONTELLO. Erano nervosi i generali italiani sul Ponte della Priula il 7 novembre del ’17. Sulla riva sinistra del Piave c’erano ancora decine di migliaia di uomini allo sbando, ma quell’ostia di ponte bisognava farlo saltare in fretta. C’era il rischio che gli austriaci passassero, e se passavano Venezia era persa. Il fiume era in piena, l’esplosivo già posizionato e gli artificieri in attesa. Ma giunse trafelato un sottufficiale della brigata Sassari che urlò «aspettate!», perché Dio bono stava arrivando il suo battaglione, inquadrato nel 152º reggimento.
Arrivava la Sassari, regina delle fanterie. Bisognava attendere, ma passava il tempo e non si vedeva nessuno. Un’ora, un’ora e mezza: nulla. E proprio quando i genieri ebbero l’ordine di accendere le micce, ecco uno squillo di tromba e un polverone a distanza. I sardi arrivavano ed erano — da non crederci — in fila per quattro, passo cadenzato, sottogola giù e fucile a bilancia, e davanti un piccoletto tipo Emilio Lussu, il capitano Giuseppe Musinu. «Attenti a dest» gridò davanti ai generali, e il battaglione passando rese gli onori.
Lo stupore degli alti ufficiali aumentò quando un biplano austriaco sorvolò il ponte e, anziché far fuoco, scese sulla colonna in marcia per ondeggiare con le ali in segno di ammirazione. La guerra nei cieli era un’altra cosa. Gli italiani buttavano talvolta un fiore in omaggio al cavaliere dell’aria che avevano abbattuto. L’aviere austriaco Goffredo de Banfield, triestino, quando costrinse all’atterraggio un pilota francese, prima lo dichiarò prigioniero poi lo invitò a cena all’hotel Excelsior.
Ho sorvolato il Piave con quei trabiccoli leggeri. In varchi di nubi alte come torrioni, il fiume verde si allargava e si stringeva sulle ghiaie, mostrava come su una mappa il guado della 31. a divisione degli Honved ungheresi a Falzé, le linee di difesa italiana sul Montello, l’ossario di Nervesa e il punto dove la 13. a divisione degli Schuetzen gettò un ponte di barche all’altezza di Villa Jacur. Sotto avevo la battaglia del Solstizio, giugno 1918, la più bella vittoria italiana in campo aperto.
In un piccolo campo d’aviazione dedicato a Francesco Baracca accanto al ponte della Priula, c’è ancora chi — come Giancarlo Zanardo, 73 anni e una passione da collezionista — declina ogni giorno la nostalgia, non certo per la guerra, ma per quella dimensione semplice del volo. Dice: «Che meraviglia questo andare liberi, a viso scoperto, decollando e atterrando su una prateria». E racconta il lavoro matto di recupero e restauro che con alcuni amici sta compiendo in vista del 2015, centenario dell’entrata in guerra.
Li vedo decollare, incuranti della pioggia, dalla tettoia di un piccolo hangar giallino e invidio quell’andar di manetta, come i cavalieri antichi. Ma a quel tempo l’aereo fu anche il preambolo di una modernità che avrebbe ridotto l’individuo a bullone senz’anima. Chi erano quei matti che accettavano di farsi sparare tra le nubi su un aggeggio che una volta su tre finiva per prendere fuoco? Nel 1940 la gente vide scoppiare un conflitto mondiale sapendo ciò cui andava incontro, ma cent’anni fa per i contadini del Friuli fu come se si fosse dichiarata guerra a Marte. Fantascienza.
Fattoria “Da Basei” sul Montello. Pioggia gelida, il vento che scuote il bosco cupo. In una sala all’interno, una quindicina di appassionati fa quartier generale attorno a un tavolo di soppressa e formaggio. Galvanizzati dal centenario, mi scaricano addosso una valanga di informazioni, mappe e documenti e sono il quadro perfetto di una regione — e soprattutto di una provincia, la marca trevigiana — che ha urgenza di
narrarsi. Foto di paesi in macerie, storie di carestia, cieli neri popolati di palloni aerostatici. Scene da Jules Verne.
La guerra portò la morte nelle case di tutt’Italia ma la distruzione si concentrò qui, nel cuore del Nordest. «Il Piemonte rimase lo stesso — spiega Marzio Favero, appassionato sindaco leghista di Montebelluna — il Veneto no, nel ’19 divenne un immenso cantiere». Qui guerra e territorio sono la stessa cosa: in pochi altri posti trovi una simile densità di monumenti e segni della pietà popolare. Ecco forse il motivo per cui assisto a questa riemersione spontanea, a un febbrile attivismo che parte dal basso e subito diventa cartografia, censimento, museo e biblioteca diffusa. Nessuna parentela con la memoria istituzionale, ricca e un po’ freddina, del Trentino, o con l’incuria del Friuli-Venezia Giulia.
Per anni Innocente Azzalini ha fatto il metronotte nelle ore di buio e, in quelle di luce, il cacciatore di immagini della Grande guerra. In pratica, non ha dormito mai. Ipercinetico e politicamente ingestibile, ha scodellato quindici libri di materiali inediti sul conflitto nelle terre del Piave. Il suo schema delle parti in causa? Tedeschi: «Tremendi nell’occupazione». Austriaci: «Un poco meglio». Italiani: «Brava gente, ma un’unità fatta alla c… di cane».
E giù storie, tante da non riuscire a farle stare nel taccuino. Gli austriaci che dilagano dopo Caporetto e trovano le cantine piene, si ubriacano perché sono due anni e mezzo che sognano il vino d’Italia. Certi, per non interrompere l’inseguimento, sparano alle botti poi si buttano a bere a garganella, per morire annegati nel vino. Novembre,
tempo di maiali grassi, di solai zeppi di grano, e il Veneto è una cuccagna.
Quanti racconti nella fattoria frustata dalla pioggia. Vedo passare un lungo film muto. La fame che devasta le file austriache; lo scatenarsi delle razzie più infami, quelle dei vitelli e mucche da latte; gli occupanti che diventano cavallette, i preti che li maledicono dai pulpiti. Sul lato italiano, decine di paesi distrutti, il resto delle pietre asportato per far trincee. Il coro ligneo dell’abbazia di Sant’Eustachio a Nervesa bruciato perché non c’è altro per scaldarsi.
Ha nevicato sul Grappa; nelle nubi vedo brandelli di bianco sui pascoli e le rocce. Domani si va lassù.
(20 — continua)

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