Il Cavaliere e il vertice di famiglia I figli pronti a scendere in campo
ROMA — Alle 22.45, l’ultima voce che arriva da Palazzo Grazioli è quella di una riunione di famiglia. La nota in cui ambienti del Quirinale hanno chiarito che la grazia la possono chiedere solo i soggetti titolati è stata interpretata, a ragione o a torto, come un segnale di apertura. Un segnale che rimanderebbe a una richiesta diretta che, a sentire i berlusconiani, può arrivare «dall’avvocato Coppi o dai figli di Berlusconi». E sono voci che fanno il paio con il tam tam su un possibile viaggio lampo che Gianni Letta avrebbe fatto verso il Trentino, dov’è ancora in vacanza Giorgio Napolitano. E anche con quella voce (questa sì, impazzita) secondo cui sul volo ci fosse anche Berlusconi in persona.
Di certo c’è che, prima delle 18, l’ex premier è a Palazzo Grazioli. «Dobbiamo capire se nella finestra da qui a ottobre posso candidarmi a premier. Perché se si può fare, potrei farlo». È l’ultima versione del Cavaliere, che si materializza davanti ai ministri del Pdl, nella riunione lampo in cui la pattuglia governativa rimette il mandato nelle sue mani. Alle 18, ora in cui è fissata l’assemblea con i parlamentari, manca poco. Il tempo per mettere da parte la linea che Gianni Letta gli aveva suggerito la notte prima, e cioè «dimettersi da senatore», «pensare alla salvaguardia delle aziende» e «a proteggere i tuoi figli». A cominciare dalla primogenita Marina, ancora in nomination per un ruolo in Forza Italia.
Tutto azzerato a favore di una linea di stop and go che potrebbe dare al governo Letta il colpo mortale. «Non cadrà per mano mia», continua a promettere il Cavaliere. Convinto che adesso «sarà il Pd a staccare la spina».
Tutti quelli che lo incontrano lo vedono molto più provato del giorno della sentenza. La notifica della Procura di Milano e il ritiro del passaporto l’hanno come trasformato in un uomo pronto a giocare anche la carta della disperazione, e cioè «quel ritorno al voto per realizzare finalmente la riforma della giustizia». Un piano che Berlusconi, quando è di fronte ai suoi parlamentari che lo accolgono con una standing ovation, accenna soltanto. «Prima del ‘94 la magistratura ha fatto fuori i cinque partiti che comunque, seppur tra tanti difetti, garantivano all’Italia il benessere», ripete tra gli applausi. «Pensavano di portare al potere la sinistra e invece sono arrivato io», insiste. Poi il messaggio da campagna elettorale: «Spesso gli italiani si sono affidati all’astensione o ai piccoli partiti. Non ci hanno mai dato quel 51% che ci serviva per realizzare la grande riforma della giustizia. Adesso dobbiamo tornare al voto al più presto». L’unico passaggio soft, si fa per dire, è quello in cui rivolge l’indice verso la platea di parlamentari e scandisce: «Decidete voi cosa fare indipendentemente da me. Decidete pensando all’Italia. Riflettete attentamente e prendetevi tutto il tempo per farlo».
Il tempo, alla fine, sarà meno di cinque minuti. Perché sarà Angelino Alfano, praticamente in lacrime, a dirlo apertamente. Dandogli, tra l’altro, sacralmente del «lei»: «Presidente, noi ministri rimettiamo il nostro mandato nelle sue mani. Decida lei che cosa farne. Noi rimaniamo fermi nel credere nei nostri ideali. E non rinneghiamo lei, presidente Berlusconi, che ce li ha insegnati». Il resto dell’incendio lo appiccano i capigruppo Schifani e Brunetta. Soprattutto quest’ultimo, che nel ricordare commosso «la mia storia di figlio di venditore ambulante che grazie al nostro Presidente è diventato ministro», tira fuori la faccenda della grazia, di cui anche Gianni Letta aveva parlato col capo dello Stato: «Andremo da Napolitano a dirgli di impedire in ogni modo che milioni di italiani siano privati del loro leader».
A riunione finita, il Cavaliere versione colomba dei minuti precedenti alla sentenza della Cassazione scompare dai radar. «Enrico, il governo non cade», aveva detto al telefono al premier prima che i giudici uscissero dalla Camera di consiglio. Pensava ad un annullamento, visto «che io sono sempre stato promosso a giugno e mai rinviato a settembre». Era sicuro di farcela. Poi erano arrivati, nell’ordine, la sentenza, le lacrime della fidanzata Francesca, le visite dei deputati a cui aveva detto «state tranquilli, domani tutto come prima», la suggestione di «andare in carcere» e poi quella di farsi affidare ai servizi sociali, alle suore come la compianta zia Bice. Poi la notte, tremenda. Il tormento dei figli, Marina e Pier Silvio, a cui si sono aggiunti anche Barbara e Luigi. E una promessa: «Non permetterò a nessuno che siano trattati come i figli di un condannato». Figli che, adesso, potrebbero anche entrare nella partita della grazia.
Tommaso Labate
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