IL BOSCO DEI RAGAZZI DEL ’19

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ASIAGO. Scendo nella pioggia da Malga Zebio e la foresta ha qualcosa di strano, qualcosa che manca. Niente alberi bambini. E poi gli abeti, tutti eguali. Bestioni di quaranta metri, immobili nella pioggia come granatieri. Che è successo quassù? Poi capisco. Quegli alberi sono i “ragazzi del ’19”, cresciuti sulla pelle scorticata dell’Ortigara, del Monte Fior e delle Melette. Segni benedetti di vita che ricomincia, ma anche figli della desertificazione. Coscritti della stessa classe di leva, uguali perché nati nello stesso anno, armata di anime generate dalla stessa tabula rasa e dalla stessa ecatombe.
Diciannove. Che primavera fu quella. Non una pianta, non un passero che cantasse. Ossa dappertutto, talmente tante che se ne sarebbero trovate per cinquant’anni. Fu allora che centomila sementi fecero il nido nelle tombe dei nostri nonni perché altro spazio non c’era. Oggi sono gli alberi nati da quei semi la più bella delle sepolture. Quando il Mario (qui “il Mario” era e rimane solo il Rigoni Stern) trovava un soldato morto ancora negli anni ’50, non lo diceva a nessuno, perché i morti bisognava lasciarli in pace, farli diventare bosco.
Quando Giani Stuparich, medaglia d’oro, venne a cercare i luoghi dove era morto il fratello, maledisse la freddezza degli ossari dove avevano trasferito il corpo di lui, ma anche il bosco che in pochi anni s’era ripreso spazio a spese della memoria. Pareva impossibile che il monte non dovesse portare scolpito in eterno il segno della tragedia. Invece era possibile. Con gli anni la voce dei morti s’è fatta più flebile, è diventata fruscio di foresta e i villaggi son ricresciuti su uno sterminato cimitero. Ma certo: se i fantasmi fossero un problema per i vivi, se le notti di quassù fossero popolate di lamenti, Asiago non esisterebbe.
Lontano, tra le nubi, la cima pelata delle Melette mostra una greca segnata di neve fresca: trincee. E intanto tuona sopra la Val di Nos, gli abeti oscillano come alberi maestri. Dal sentiero vedo un filo di fumo uscire dalla tana del Gianni Rigoni, sopra il piccolo aeroporto di Asiago. Il figlio del Mario mi apre la porta alle sette, quando le dieci pendole sparse nelle stanze di casa sua si mettono a suonare in ordine sparso e la minestra d’orzo già fuma in pignatta. Uomo di boschi come il padre, lamenta l’avanzata del più spudorato degli arbusti: il mugo. Tentacoli che mangiano tutto, pascoli e trincee. Roba che non estirpi nemmeno col fuoco.
Caminetto acceso e vino rosso, ecco dove si rintana la memoria. Mappe, vecchi libri, racconti. Identificazione perfetta di toponomastica e storia. Cima Saette, dove un fulmine incenerì sette alpini. Campo Gallina, dove il generale austriaco Mecenseffy fu disintegrato da una granata sparata a caso. Le Melette, ancora loro, dove i reggimenti bosniaci gridarono “Urrah” alla vista della laguna di Venezia prima di essere fermati dai fanti della Sassari. Il Monte Zebio, dove gli austriaci, nauseati da un massacro a senso unico, implorarono gli italiani di smetterla di farsi ammazzare.
Dove, dove, dove. Non c’è punto della carta che non raccordo chiuda storie, il dito del Gianni la percorre febbrilmente, passa dal 1916 al 1918, sale e scende per fasce di isoipse, segue strade e mulattiere, vola da Emilio Lussu a Paolo Monelli, e a tratti mi par di sentire la voce del padre, come se preferisse seguire i sentieri misteriosi dell’oralità, il più possibile lontano dalle lapidi e dalle polverose biblioteche. Il Mario è con noi, la sua voce ci abita più che i suoi scritti. Ora ne sono certo: è lui il filo che ci collega all’Evento, il tramite della leggenda. Lui che, avendo vissuto un’altra guerra, poté intendere la voce delle foreste, dei ruscelli e delle pietre.
Letto preparato in mansarda, la pioggia tuona, sembra che tutte le valli di questo misterioso fortilizio boscoso si sveglino per raccontare, la notte pare un canto di ossa bagnate, di corpi ancora intrappolati nel crollo delle mine. Un’estate simile non s’era mai vista. Aria cupa, malsana. Fulmini, la luce va via, le pendole matte del Gianni si rimettono in agitazione. Sere fa si è visto un cimitero ardere a Bocchetta Paù, ultimo balcone in fondo alla Bärental. Cento croci in fiamme, visibili anche dalla base Nato di Vicenza. Cento croci di legno piantate lì da un’anima partigiana amata dal Mario, il libraio Alberto Peruffo, per simboleggiare il rogo della memoria perpetrato da un potere che ha venduto l’anima per una ciotola di lenticchie. In mille hanno visto, trepidanti, le croci cadere una a una nel crepitar delle fiamme, trac-tunf, come abbattute dal cecchino.
L’indomani un tregua del temporale benedice la cerimonia con la banda al sacrario di Asiago. Ci sono delegazioni straniere: alpini sloveni, baffuti figuranti austriaci in divisa storica, due ungheresi, uno slovacco. Un migliaio di turisti aspetta che il corteo inizi lungo il vialone rettilineo che sale al bastione dove sono schierate le falangi dell’aldilà. All’esterno, statuari simboli fascisti, mascelle volitive, ma anche un giovane soldato sbracato, che pretende ordine fumando con arroganza una sigaretta. Mi chiedo perché non ci sia nulla fra questi estremi, la retorica totalitaria e lo sfascio del consumismo. Qualcosa di silenzioso e composto come gli alberi-granatieri del Monte Zebio.
Dentro la casa dei 54 mila penombra da obitorio, luce al neon, eco di passi e di respiri. Nulla di legno, nemmeno un passamano. Sono ammessi solo il marmo e il ferro. Ma proprio quando sto per andarmene dalla catacomba, fuori attaccano i tamburi, la banda imbocca il viale seguita da un mezzo migliaio di penne nere in borghese con labari e bandiere; e nel momento in cui vedo arrivare i “veci” bene inquadrati per salutare i ragazzi di ieri, allora mi si rompe qualcosa, piango come un vitello per quel grumo di sentimenti che mai capirò e che è tutto meno che sciagurata esaltazione della guerra o estetica della morte.
(22 — continua)


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