I sentieri del sangue perduto
Falde del Monte Ortigara, ore 22, un giorno di luglio. Tende sparse di penne nere su terreno irregolare segnato da crateri di bombe. Canti un po’ stonati, poche stelle e lampi lontani.
Una voce nel buio: «Altolà chi va là?».
«Alpini», rispondo.
«Alpini no basta. Parola d’ordine!».
«Traminer, Malvasia e Vitovska».
«Vito».
Passo. Ho tre bottiglie nello zaino e cerco nel semibuio la tenda buona per barattarle con cibo. Nella radura risate sommesse di retrovia e fumo di luganighe alla brace. Accenti veneti e lombardi. Con gli alpini, il diaframma fra sagra e commemorazione è sottile. Ci sono decine di migliaia di morti là sotto, ma loro mangiano e bevono lo stesso. In fondo, in mezzo mondo si fa picnic sulla tomba di santi e poeti. E poi la morte è un antico esaltatore di sapidità. Tenente Paolo Monelli ne pagina 156: la vita è «una cosa buona che si sgranocchia in silenzio con i denti sani» e i morti, in fondo, sono solo «compagni impazienti che si avviarono in fretta a loro faccende ignote».
Ho piantato la tenda su una spianata da mortaio. Tanta pietra e poca terra, un sacramento di terreno. I teli son venuti su storti, ma almeno, se diluvia, l’acqua non ristagnerà. Perché la pioggia arriva, come ogni giorno. Son due mesi che sto al fronte e ho beccato solo temporali. «Non fare questo viaggio d’estate — m’avevano ammonito —: per la trincea ci vuole il fango e la neve», e per Dio da allora non ha smesso di far brutto, siamo a mezza estate e non è finita. Sul Falzarego, quaranta centimetri di fresca. Nebbia sul Cevedale, diluvio sul Pasubio, botti come cannonate sopra Caporetto. Trincee sepolte dalla neve in Adamello, freddo becco persino in pianura sulla linea del Piave.
«E domani si va all’assalto soldatino non farti ammazzare ta-pum tapum ta-pum ta-pum ta-pum ta-pum»
.
A cantare sono quelli di Asiago. Mi avvicino, hanno una tenda grande con mensa. Una biondina svelta di nome Roberta, stirpe cimbra dei Rodeghiero, mi passa un piatto fumante senza chiedermi chi sono. «Costesine, poenta e fasoi». Avverto: attenti, non sono alpino, ma solo un vecchio rudere della Folgore, fanteria. «Basta che el vin sia bon», tagliano corto i veneti, e il mio bianco del Carso sparisce nelle loro tazze d’ordinanza. Aggiungo che sono un infiltrato, che vengo da Trieste, che è stata austriaca fino al 1918. Una città di italiani ciapài col s’ciopo,
come i dalmati, gli istriani e i trentini, per i quali la guerra inizia nel ’14, non nel ’15. «Scolta triestìn — mi fa un asiaghese grande come una montagna e dalla lunga penna nera — còntene cossa te fa de ste parti », cosa ci fai quassù. Non gli importa niente delle mie paturnie identitarie.
Racconto il viaggio appena finito, seicento chilometri di fronte con baracche appese a strapiombi, vento gelido negli ossari, sere a cantare
Una notte che pioveva, grumi di ruggine e reticolati, gironi fumanti di nebbie, cantine di recuperanti piene di bombe e di elmetti, merende consumate nei buchi delle granate. E ancora migliaia di chilometri di strade, gallerie, teleferiche, camminamenti e fortini, grandiosi monumenti dell’inutile, balaustre su un’Italia sconosciuta, meravigliosa e terribile. Spiego che dopo un viaggio simile, il giusto finale doveva essere qui, per l’anniversario della battaglia dell’Ortigara. Su questi prati che ogni anno, a luglio, si riempiono di tende e di penne nere di mezza Italia.
La sera prima, a casa del Gianni — casa Rigoni Stern con formaggio alla piastra, vin rosso, patate e minestra d’orzo — ci siamo studiati le mappe per capire. Era venuto anche Vittorio Corà, uno che conosce ogni pietra dell’Altopiano. La storia del monte maledetto comincia nel maggio del ’16, con lo sfondamento della Strafexpedition e gli imperiali che arrivano quasi in vista di Vicenza. I nostri tengono, non si sa come, con poca artiglieria e i rinforzi che non arrivano. Da quel momento l’Ortigara diventa un’ossessione, l’ultima possibilità di riconquistare
le posizioni iniziali. In molti cercano di dissuadere Cadorna, il nemico è troppo ben trincerato. Inutilmente: nel giugno del ’17 si schierano trecentomila uomini e millecinquecento cannoni per il contrattacco. È un’ecatombe. La puzza dei morti si sente a chilometri. Gli austriaci tengono, con un terzo degli effettivi.
I lampi si fanno più forti dietro il monte, illuminano nubi tumefatte color ciclamino, e i veci ascoltano in silenzio la storia di questo mio andare senza imbarazzi sulla terra di nessuno, in bilico fra i nemici, da bravo animale di frontiera; fio de nissùn, complicato di genealogia e di appartenenza, nipote di un nonno in divisa asburgica e di un illustrissimo zio irredentista passato all’Italia. Cose difficili da spiegare a quelli di Roma e Milano.
A mezzanotte torno in tenda nel buio, col nubifragio in arrivo. Tutta la ferrazza disseminata tra Grappa e Pasubio s’è messa a friggere e chiamar saette. C’è anche il mio alpenstock, che col temporale diventa parafulmine. Legno italiano e puntale austriaco di guerra, trovato quassù. Un regalo di Gianni, sempre lui, il figlio del Mario. «Ciapa qua» mi ha detto un anno fa senza cerimonie, staccandolo dal muro. È diventato il talismano del viaggio, mi ha seguito fino all’ultima trincea.
L’ho usato come appoggio e timone, per traversare torrenti e ghiaioni, o scivolare sui nevai di un passo chiamato Sentinella.
Salve come di fucileria, crepitar di botti, cannonate, brontolii dietro le creste e le forcelle. Fa un caldo caraibico, la tenda è assediata di zanzare in cerca di rifugio. Mi barrico e piombo in un sonno profondo, animale. Alle tre e mezza un boato. C’è un festival di lampi, la tenda è strattonata dal diluvio. Scassoni, scravazzi, scrosci e cannonate, rotolar di sassi, alberi immensi che oscillano in verticale. «Santa Ana, tien la piova ne la tana/San Simon, a starlup in tal segiòn », santi benedetti tenete la pioggia nella tana e il fulmine nel secchio, la tenda fa acqua negli angoli, non c’è la canaletta, speriamo che tenga; penso come potevano resistere quei ragazzi in grigioverde quassù, al pensiero che oltre al buio, oltre ai tuoni, ai fulmini e alla pioggia ci fosse anche un nemico pronto a scannarli. Quanta infinita miseria in quei bivacchi.
Ortigara, notte del 2 luglio 1916. Dai fogli del capitano Michel, raccolti da Claudio Rigon. «Arrivarono i primi complementi di classi anziane, sfiniti in quella località tenebrosa dopo aver arrancato fra sassi, pini mughi e macigni. Erano giunti in una notte nera, solcata a tratti da razzi illuminanti… mentre a intermittenze
il tragico silenzio era rotto dal petulante ta-ta-ta della
Schwarzlose
nemica… o ancora dai colpi sordi delle bombarde o dal precipitare dei massi. Arrivati fra ombre immobili accovacciate fra le spaccature delle rocce in rassegnata attesa della propria sorte, venivano impressionati sinistramente dal rantolo dei moribondi e dai lamenti dei feriti».
Ortigara, trentamila perdite in dieci giorni. La corsa disperata degli italiani, in salita, sotto il tiro delle mitragliatrici, per un monte insignificante, l’annaspare verso i reticolati. Nel buio vedo come una migrazione di lemming, i topolini delle nevi che quando sono in soprannumero scelgono di suicidarsi gettandosi nei precipizi. In quella massa di animaletti impazziti, pupille dilatate, trovo l’immagine perfetta di un’Europa che un bel giorno sceglie di autodistruggersi. Millenovecentoquattordici: un’immane mistero. Qualcosa che è impossibile capire e persino immaginare.
Ora la pioggia tuona come una cascata. Sono due mesi che viaggio su questo fronte, due mesi col sole e col vento, il fango e la neve, e anco-
ra non riesco a riprodurre la percezione del macello, il fiato corto, le scariche di paura. Non ce la faccio a entrare in quelle scarpe e in quei vestiti di panno rancido. È come se, di trincea in trincea, questa guerra anziché avvicinarsi diventasse più lontana e inconcepibile. Ho davanti a me il paradigma dell’inumano e dell’insensato, qualcosa che è vano cercar di rivivere. Forse, come mi ha detto un bravo generale, alla mia umana percezione manca l’unica cosa non riproducibile. L’odore.
Il piscio, il sangue, la putrefazione. Eppure di guerre ne ho viste. Ho annusato il dolciastro dei morti di Vukovar sul Danubio. Ho guardato dentro le occhiaie dei talebani mangiati dai corvi sui monti di Jalalabad, e ho visto i bosniaci smembrati da una granata al mercato di Sarajevo. Eppure non basta, qui sull’Ortigara. Ma se nemmeno io posso capire, come possono farlo i figli di Facebook? C’è un fronte generazionale, oltre il quale inizia Lete, il fiume nero dell’oblio. Faccio due conti. Ho quasi 66 anni. Tra la mia nascita e la guerra ce ne sono solo 29. Un tempo che dovrebbe contrarsi, col presbitismo dei vecchi,
in proporzione all’allungarsi della vita biologica. E invece l’inferno s’allontana. L’ortica mangia le trincee, l’acqua dilava, la neve ricopre, l’erica fa il nido nei crateri delle granate, i fantasmi non si lamentano più nelle radure senza luna. È finita appena ieri, e paiono già mille anni. Ho fatto meno fatica, forse, a mettermi nei panni di Annibale.
S’è levato il vento, la pioggia si dirada. Tiro fuori dal sacco i libri di Lussu, Weber e Monelli. Leggerli quassù, con la lampadina frontale, dentro una tenda, in una notte simile, è tutta un’altra cosa. Ora capisco perché sono tornato sull’Altopiano alla fine del viaggio. Zebio, Cima Caldiera, Melette, Castelgomberto, Monte Fior. Ogni cima, ogni colle, ogni convessità è inchiodata a testimonianze vive. E i diari — il “qui ed ora” fissato in un taccuino — sono meglio della letteratura, per capire. Monelli si rifiuta di riscrivere gli appunti dell’Ortigara. «La memoria più fedele deforma i fatti lontani ». Nel ricordo, «le granate cadono più vicine, i gesti ingigantiscono, le vigilie perdono in profondità, i momenti intermedi scompaiono; le bugie, la retorica degli altri agiscono inconsciamente su di noi».
Voci da altre tende, prima luce sulla radura di Campo Luzzo butterata di crateri. Felicità di oselèti: cantano come matti per festeggiare
la fine simultanea del diluvio e delle tenebre. Preparo il caffè e accendo la pipa; sprigionano un profumo nuovo. Anch’io fisso il mio “qui ed ora” sul taccuino. Il bosco sfiata vapori e fumo azzurro di bivacchi. Sento sulla pelle “la carezza tiepida della vita”. Le cose buone e vere si chiariscono all’istante: un piatto di gnocchi, un libro, un sonno profondo, una lettera da casa, un buona bottiglia. O un bel ricordo, come l’immagine di Davide, gestore del rifugio Campogrosso, che dopo una nevicata arriva dalla retrovia con una teglia di pesce e semina festa sul fronte, con noi a cantare fino a mezzanotte.
Salita verso il Chiesa, il Campigo-letti e l’Ortigara, una muraglia dove basta rotolare dei massi per fermare chi sale, con gli austriaci implacabilmente dominanti. Dall’Adamello al Carso, la stessa storia. Loro che si affacciano sull’azzurro-grigio della pianura con in fondo il blunotte del mare, e gli italiani che dal basso — dall’Adige all’Isonzo — vedono, con la nitidezza di un diagramma, l’incubo di un interminabile fronte, a venti chilometri da Udine, Verona e Vicenza. Ma specialmente qui, e sul Carso, è l’epifania dell’inconcepibile, il diagramma altimetrico di una guerra immobile e tutta in salita.
Su questa scarpata disseminata di ranuncoli gialli, come sul Podgora, il Monte Santo o il San Michele, sta il monumento alla sadica ostinazione di Cadorna: mille volte lo stesso comando, mille volte l’urlo «Savoia» e mille volte la stessa corsa tra i cadaveri delle ondate precedenti. Altra storia fu il Piave, quando quei ragazzi dovettero difendere anche le loro case. Altra musica il Grappa, dopo Caporetto, quando i “crucchi” si trovarono di fronte a combattenti capaci di farsi legare alle mitragliatrici pur di non arretrare. Lì gli italiani furono, per qualche mese, nazione vera.
Squarci di sole, labirinti di mughi, poi il sentiero conquista le linee austriache e deborda sull’altopiano. Uncimiteromilitare,poiun’onda lunga di pietraie, e in fondo l’Ortigara, una cima da nulla a picco sulle Malebolge fumanti della Valsugana. Lingue di nubi sinistre salgono dal Trentino, mille metri più in basso, ma l’inferno è nella busa meno profonda tra la campana della cima e il Monte Caldiera. Là, prima dell’assalto, il prete benediceva i morituri, figli di contadini sbattuti davanti a cose mai viste prima: gas, mitragliatrici, aeroplani, rotoli di filo spinato. Arrivano in vetta alpini sudati, con panini di soppressa e fiaschi di Cabernet. C’è pure una pattuglia ordinata di sloveni, che qui tennero duro sul Chiesa. Mi
aspetto cori, ma niente. È tempo che l’Italia ha smesso di cantare. Cent’anni fa persino in guerra c’era musica. Bersaglieri all’assalto con la banda, pianoforti a coda portati a tremila metri per tener su il morale dei signori ufficiali austriaci. Immagini da film: l’Incompiuta di Schubert che vola nel nevischio dell’Adamello, e il Rigoletto di Verdi sparato in risposta da un grammofono delle linee tricolori. Ultime voci del mondo di ieri.
Ripenso a Franz, un tirolese di Trafoi. Mi ha raccontato che quando gli italiani presero la cengia Martini, un posto da pazzi sul Piccolo Lagazuoi, gli altri tentarono inutilmente di demolirla a suon di mine, finché una notte gli alpini risposero con la banda, pifferi e ottoni aggrappati all’impossibile. Nella nebbia del Falzarego i soldati chiesero ai loro ufficiali cos’era quel canto, e venne loro risposto: sono i nostri sulla cengia Martini che dicono «siamo vivi». Nessun poté trattenerli, gli alpini sul passo. Corsero d’impeto su per le rocce ad abbracciare i loro compagni a notte fonda.
(1-continua)
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