I PAPAVERI DELLA MEMORIA

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SOLIGO (TREVISO). Neve in quota e pioggia, maledetta pioggia, nelle valli. Non finisce mai. Tuonano i torrenti, il Travignolo, il Cismon, il Vanoi, ma in uno squarcio delle nubi sul passo del Brocon si spalanca una vista senza fiato sul monolito del Grappa, poi la pianura, Castelfranco, per un attimo Venezia — vicinissima! — e ancora fulmini, tendaggi grigi che avanzano, giochi di luce come aurore boreali.
Il Generale degli alpini se ne va — la guerra sotto i mille, scherza, «non la considero» — e mi lascia solo all’imbocco della bassa valle del Piave. Sono alla boa del viaggio. Quella che mi obbliga a planare sul fronte del novembre ’17, quello dell’umiliazione e del riscatto d’Italia, dove la terra dice una storia nuova, di moltitudini in movimento, ponti di barche e duelli aerei. Una guerra “bassa” e moderna, senza più l’ossessione delle cime dominanti.
Eccolo il Piave a distanza, con le ghiaie e le isole, uscire dai vigneti di Valdobbiadene e sbandare verso Est. È quella la mia meta, prima di risalire verso gli altipiani e i ghiacciai di una guerra che non ha conosciuto Caporetto. Ora è solo pianura. Pederobba, Nervesa, Ponte della Priula, Maserada. Austriaci da un lato, italiani dall’altro, ma sull’una e l’altra riva stessa città diffusa, stessi capannoni, stessi vigneti, stesse lapidi, cimiteri e rimembranze. Provincia di Treviso, un addensamento mai visto di memorie.
Nella fattoria di Roberto Tessari, sui colli di Soligo, bastano pochi metri di salita per vedere lontano verso il fiume, per sentire la terra che racconta e affondare le mani in un crogiolo di coraggio, viltà e paura: ciò che è stata la guerra. I cipressi non indicano giardini come in Toscana. Nel Trevigiano segnano ossari e cimiteri, la trigonometria della morte. E poi papaveri ovunque, papaveri fuori stagione, rossi calici del sangue e del ricordo. Lapidi di eroi, ma anche di donne, vecchi e bambini morti di fame. Ovunque, i segni di un territorio che rinasce da zero, dopo lo choc e la distruzione.
«Sparano su Valdobbiadene! ».
La figlia di Roberto si sporge dall’uscio della cucina e ci fa sentire a distanza i razzi antigrandine che fanno ombrello sulle vigne del Cartizze. Bombe e chimica sulla valle del Piave piegata dalla maledizione del clima. Riecco la pace che corrode il Pianeta più della guerra. Chiudono stalle, scompaiono pascoli, si moltiplicano le fabbriche e i vigneti miliardari in un paesaggio che, per la prima volta da millenni, non si ritrova più. Anche questo ci dice la terra amata e maledetta da Andrea Zanzotto.
Tessari prepara oca per cena, è la sua specialità. “Oca in onto” si dice da queste parti. È trent’anni che fa il contadino senza usare veleni, sul colle di Mondragon. Ma la sua passione è la Grande guerra. Non le ha dedicato solo libri fondamentali. La sa anche narrare come pochi. Ha voce calma, e quando ha i nipotini sulle ginocchia, è il nonno delle fiabe che tutti vorrebbero. Mi versa un bicchiere di Cabernet e, mentre la pioggia ricomincia a cadere, mi porta nella sua sterminata biblioteca per aprire su un tavolo la mappa del Nordest.
«Ecco, questa è la linea degli ossari».
Così dice, e vedo il suo indice destro scendere dal Passo Resia verso il Pasubio, poi tagliare verso destra su Asiago, il Grappa e Nervesa, per salire in diagonale su Caporetto e ridiscendere sulla città dei morti di Redipiglia. Dodici case di eroi divinizzati, per costruire la gloria del regime e dell’impero fascista. Così le volle Mussolini. Ossa umane, come pietre di un edificio politico.
E parte, accanto al fuoco della cucina assediata dal temporale, una storia dolorosa, che fatico persino a trascrivere, di corpi troppe volte riesumati e trasferiti di tomba in tomba, di ditte ammanigliate col Potere che rubano subappaltando il trasloco dei resti, di austriaci fatti passare per italiani perché gli italiani sono pagati di più. E ancora storie di ossa meticolosamente scarnificate — vedo la foto dei becchini al lavoro — perché solo così il Caduto può accedere alla perfezione minerale dell’ossario.
«Si buttarono via scarpe, stellette, e tanti segni identificativi. Sparirono molti nomi, anche per questo gli ignoti furono così numerosi. Ci fu chi di due cadaveri ne fece tre per strappare più soldi, e si dovette imporre la regola che per ottenere il pagamento di un corpo bisognava esibire l’osso sacro, uno dei pochi non scomponibili». Scoppiò uno scandalo, fu indetto un processo a Bassano, ma la storia fu messa a tacere, perché erano i giorni del Milite Ignoto e la Patria non ammetteva dubbi.
Notte, grandina su casa Mondragon. Quelli di Valdobbiadene, che Dio li abbia in gloria, hanno spostato il temporale su di noi. Fa freddo, e la storia delle ossa mi ha inquietato. Accendo la luce per leggere. Trovo “Tappe di una disfatta” di Fritz Weber, testo- chiave per capire, da parte austriaca, cosa accadde sul Piave.
«Potevamo arrivare a Genova… Nessuna meta ci sembrava troppo ardita, nessun sogno troppo fantastico perché non potesse avverarsi… ma nessuno di coloro che occupavano i supremi posti di comando comprese il significato di quell’ora. Tremolanti dita seguivano sulle carte geografiche la trionfale marcia dell’esercito, e dal preoccupato scuotere di parrucche non piovve che putridume di superate concezioni d’altri tempi. Come? Che? Gli austriaci sul Livenza? Sul Piave? Ma non era stato deciso che si arrestassero sul Tagliamento?».
Assaporo nella pioggia le sillabe di una storia capovolta rispetto ai manuali. Weber visse l’avanzata dal di dentro, con l’esaltazione
di chi poteva finalmente attaccare dopo due anni e mezzo vissuti come un topo, sotto le bombe, rintanato in difesa. Non poteva rendersi conto che sul Piave era nata un’altra Italia, molto più capace di combattere.
«Avevamo varcato il Piave ma un ordine ci richiamò indietro… La lezione di Caporetto non era servita. Si riprese a combattere per le “alture dominanti”. In dicembre! Così, la più grande vittoria della guerra mondiale si sbriciolò in una farragine di futili episodi. E quando nel giugno del ’18 risuonò l’ora della riscossa, già a caratteri di fuoco fiammeggiava nel cielo la parola fatale per l’Austria: TROPPO TARDI!».
(18 — continua)


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