I paletti di Napolitano per ricomporre la crisi

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La rincorsa alle iperboli cominciata in casa Pdl dopo la condanna di Berlusconi e culminata negli scenari da «guerra civile» evocati da Sandro Bondi ha di sicuro impressionato tanti italiani, ma forse non troppo Giorgio Napolitano. Il quale, abituato per carattere a «governare le passioni» e avendone viste tante, ha liquidato quelle dichiarazioni come «irresponsabili». Una sola parola, dura, per mettere a tacere chi gioca a spararla più grossa. E per raffreddare il clima in ogni senso torrido — e a lui interessa soprattutto il termometro di Palazzo Chigi — che ha trovato ieri pomeriggio a Roma, al rientro da una breve vacanza in Alto Adige.
Non siamo ancora alla crisi di governo, ma una crisi politica sembra già quasi aperta. E l’esecutivo depotenziato nella sua azione, almeno fino a quando non calerà la tensione. Infatti, nell’escalation di provocazioni, minacce, ultimatum, ricatti, è ormai concreto il rischio che la situazione sfugga di mano e tutto vada fuori controllo. Anche al di là delle volontà di chi ha siglato il patto delle larghe intese e dichiara di volerlo onorare. Insomma: il pericolo è che, a forza di parlare di guerre imminenti, qualche volonteroso si senta magari autorizzato a premere il dito sul grilletto e a farlo scoppiare sul serio, un conflitto insanabile. In quel caso, se tutto risulterà compromesso, a vincere sarebbe soltanto quel sentimento autodistruttivo di cui il Paese è ostaggio da anni. Una smania da cupio dissolvi in cui potrebbe annichilirsi il governo di Enrico Letta e la stessa legislatura.
Ecco le pesantissime incognite che il presidente della Repubblica si trova ad analizzare in queste ore, anche attraverso qualche contatto riservato con i leader della maggioranza e del centrodestra in particolare. Il punto, per lui, è ponderare le reali intenzioni di un Pdl che pretende la grazia per Silvio Berlusconi, in maniera che siano cancellate le ricadute della condanna definitiva che gli è stata inflitta sul caso Mediaset e gli sia restituita, oltre alla libertà personale, la cosiddetta «agibilità politica».
Ma davvero — ci si chiede al Quirinale — non si conoscono le procedure e i limiti previsti dalla legge per la concessione di un provvedimento di clemenza? Davvero non si capisce che è molto improprio attribuire un’esplicita veste politica a una simile iniziativa? Davvero si crede che annullare gli effetti di una sentenza dopo pochi giorni o settimane non si traduca in una virtuale delegittimazione di quella sentenza, e che sarebbe grave se a fare tutto questo fosse il presidente del Csm? E infine, davvero l’intera squadra dei parlamentari pidiellini, (ministri compresi) è pronta a dimettersi per solidarietà con il loro gran capo?
Dalle risposte a questi interrogativi dipenderanno le prossime mosse di Napolitano. Un modo per abbassare la tensione — e l’emotività — è quello di decelerare, di far un po’ decantare i toni e gli umori, di dispiegare intanto qualche forma di persuasione morale (parallela, in un certo senso, a quella avviata nel frattempo dal premier). Per cui oggi, giorno della manifestazione di piazza organizzata dal centrodestra, non ci sarà alcuna udienza sul Colle. I capigruppo Renato Brunetta e Renato Schifani saranno ricevuti in un contesto protocollare (e, appunto decongestionato, sperando che dalla piazza romana non echeggino intollerabili spropositi avventuristi), all’inizio della prossima settimana. Forse già domani, dopo che — per bocca dello stesso Brunetta — hanno annunciato di volersi limitare a descrivere «la situazione drammatica in cui è precipitata la democrazia nel nostro Paese». Stavolta senza più accennare alla grazia, ma lasciando intendere che i loro ragionamenti si concentreranno sulle condizioni in cui il Cavaliere sconterà la condanna (non tali da inibirgli l’attività politica come sarebbe se si applicasse la legge Severino).
Un mezzo, e provvisorio, passo indietro, quindi. Che da solo ovviamente non basta ad azzardare quali margini di ricomposizione della crisi esistano. Starà al capo dello Stato, al termine della sua ricognizione, soppesare se e quanto il quadro sia compromesso. Spetterà a lui riequilibrare la partita e non è pertanto un caso che adesso il mantra di un Quirinale chiusissimo si limiti a raccomandare a tutti «calma e gesso», con l’ansia di negare l’emergenza anche perché «al di là delle parole, per ora non ci sono stati strappi». Per la sopravvivenza del governo, molto potrebbe dipendere da quella riforma della giustizia alla quale si è riferito Napolitano nella nota che ha fatto diffondere dopo il pronunciamento della Cassazione, e che gli è costata qualche sospetto e critica. Per realizzarla serve però che il Pdl non sia animato da propositi ritorsivi, e che il primo interessato, cioè Berlusconi, se ne tenga fuori.
Se si riuscirà a tenere a bada l’emotività, l’esecutivo può ridare senso alla propria missione. Di questo hanno parlato in serata al telefono il presidente e il premier, «con l’obiettivo di mettere in sicurezza il governo e gli impegnativi provvedimenti che lo attendono in autunno» Altrimenti, nell’ipotesi che l’impazzimento continui e che si punti dritto allo sfascio, non si può escludere che Napolitano — sempre orientato per temperamento a spiegare i propri passi — spieghi quello che accade al Paese attraverso un messaggio. Che avrebbe giocoforza il senso di un estremo appello alla responsabilità.

Marzio Breda


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