I paletti di Napolitano per fermare gli azzardi e le tentazioni di crisi
Un messaggio che Giorgio Napolitano ha concepito per stroncare il groviglio di suggestioni emotive e di azzardi attivati dalla condanna di Silvio Berlusconi confermata dalla Cassazione e sulla quale l’atlante della politica si è rimesso pericolosamente in movimento.
Un memorandum che ha diversi livelli di lettura, trasparenti, per tagliare corto su almeno cinque fronti di quei giochi: 1) il gioco alla crisi di governo, tanto più rischioso se si tratta di crisi al buio, che il presidente censura duramente perché un simile sbocco avrebbe conseguenze «fatali» per tutti e ci «impedirebbe di cogliere e consolidare le possibilità di ripresa economica» appena delineate; 2) il gioco, parallelo, ad agitare «ipotesi arbitrarie e impraticabili di scioglimento delle Camere», prerogativa di sua stretta competenza e che lui non ha alcuna intenzione di assecondare, se si facesse cadere Enrico Letta, concedendo il voto anticipato con queste regole elettorali; 3) il gioco alle diverse «forme di ritorsione» contro «il funzionamento delle istituzioni democratiche», come le plateali dimissioni in massa minacciate dai parlamentari Pdl e i ventilati Aventini di protesta; 4) il gioco alla grazia-sì, grazia-no per il Cavaliere, perché ogni provvedimento di quel tipo, stretta competenza del Quirinale, ha regole precise, che non possono essere aggirate né condizionate; 5) il gioco a rimisurare i rapporti di forza tra partiti in una sfida alla reciproca, e sempre più feroce, delegittimazione, ciò che si tradurrebbe in un danno insopportabile per il Paese.
Insomma: non è né un categorico «non possumus», né un’apertura incondizionata alle pressioni incrociate di cui è oggetto da tempo, la dichiarazione che il capo dello Stato ha fatto diffondere nella serata di ieri. È, piuttosto, un avvertimento generale, in cui vengono tenuti distinti i profili giudiziari e politici aperti dal caso-Berlusconi. Quasi tre cartelle fitte, stese di proprio pugno nella solitudine di Castelporziano, per lanciare un richiamo alla responsabilità dopo giorni di riflessioni segnate da colloqui e contatti con esponenti del centrodestra (e non solo con l’«ambasciatore» dei momenti difficili, Gianni Letta) come del centrosinistra, e da analisi tecniche dell’istruttoria ad hoc preparata dai suoi consiglieri.
La speranza di Napolitano, adesso, è che le sue parole possano sterilizzare quest’ultima fase convulsa, dominata da una febbre polemica che ha contagiato larghi settori della società, oltre a istituzioni e partiti, logorando di fatto pure il governo. Uno scenario complesso e sul quale è delicatissimo intervenire, anche perché il conflitto politico e giudiziario oggi s’incrocia esplicitamente con la dimensione morale. E che vede gli italiani costretti a confrontarsi sul ventennale conflitto tra politica e magistratura. Ma stavolta irrigato dalla questione dell’indulgenza (o, sarebbe forse meglio dire, dell’autoindulgenza) che il leader del Pdl pretenderebbe di applicare a se stesso per garantirsi la cosiddetta «agibilità politica».
Nodo cruciale di ogni disputa, il diffuso equivoco in base al quale si crede che il Quirinale possa cancellare — in assoluta e insindacabile autonomia — gli effetti di una pena comminata da un tribunale, «liberando» il condannato dalle conseguenze afflittive, ossia il carcere, per ragioni umanitarie. Ma quest’idea del «motu proprio» — della quale il presidente ha un’esclusiva titolarità, confermata dalla Consulta nel 2006 — non corrisponde a tutte le sfumature e a tutti i vincoli della realtà costituzionale. In materia di clemenza ci sono «specifiche norme di legge», una precisa «giurisprudenza», «consuetudini costituzionali» e «prassi seguite in precedenza» e Napolitano non può dunque inventarsi istituti giuridici alternativi in funzione di salvacondotto.
Ecco dove il punto giuridico si sovrappone a quello politico. Il capo dello Stato stronca la tambureggiante rincorsa alla grazia per Berlusconi com’è stata condotta finora, spiegando che una domanda in tal senso (passaggio «essenziale») non gli è stata ancora avanzata da nessuno. Comunque, senza escluderla, ricorda la griglia di limiti posti dalla legge affinché lui possa aprire «un esame obiettivo e rigoroso» per verificare se «sussistano le condizioni» per «motivare un eventuale atto di clemenza individuale che incida sull’esecuzione della pena principale». Condizioni riassunte da più voci autorevoli, di recente. Che vanno dall’ovvia accettazione della pena ad almeno un inizio d’espiazione. E, aggiunge la nota del Quirinale, da «un clima di comune consapevolezza degli imperativi della giustizia» e rispetto verso chi la esercita, che non può quindi essere delegittimato nella propria, non sacrificabile, autonomia e indipendenza.
Esattamente questo, del resto, fece un’altra personalità che guidò il governo «in un recente passato»: l’ex potente segretario della Dc ed ex premier Arnaldo Forlani, che accettò i servizi sociali. Un cenno, questo, che qualcuno interpreta — forse esprimendo un wishful thinking — come un indiretto invito al centrodestra a costruire una nuova e alternativa leadership, per quanto Napolitano riconosca l’importanza del ruolo del Cavaliere nella nostra vita politica. Infatti, posto che la grazia salvi il condannato dalla «pena principale» (il carcere), non potrebbe invece estendersi alla pena accessoria (l’interdizione, con relativa incandidabilità), per la quale interverrebbe con tutto il suo drastico peso la legge Severino. È così che si capisce l’invito rivolto direttamente a Berlusconi e il Pdl a «decidere» (e a farlo «nei modi che risulteranno legittimamente possibili») sulla guida del partito e soprattutto sulle «prospettive di serenità e di coesione di cui l’Italia ha bisogno».
Marzio Breda
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