Da “Seveso bis” a “Ilva bis” dodici anni dopo lo scandalo

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BRESCIA — Quando nel 2001 Repubblica portò alla ribalta nazionale il caso della Caffaro di Brescia, il titolo fu “c’è una Seveso bis”. Dodici anni dopo lo scandalo è rimasto lì, intatto, immobile e uguale a se stesso. Al massimo è cambiato il parallelismo: nella seconda città della Lombardia «c’è un’Ilva bis». Livelli di inquinamento che tengono testa a Taranto, una bonifica da fare che allo Stato, ai contribuenti, potrebbe costare 1,5 miliardi di euro — stima confermata dal ministro dell’Ambiente Andrea Orlando — una proprietà che non c’è più, una fabbrica praticamente chiusa eppure ancora inquinante.
Una storia fatta di rimpalli, di responsabilità sempre di qualcun altro; di tempo che passa e di problemi che restano. Nel mentre i dati, impietosi, confermano che a Brescia morire di
tumore è più facile che altrove. Tutta colpa del Pcb, policlorobifenili, veleno senza colore e senza odore. Prodotto dalla Caffaro dall’inizio degli anni ‘30 e per altri sessanta anni. Giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno: le stime dell’ambientalista Martino Ruzzenenti parlano di 150 tonnellate di Pcb rilasciate nei campi e nelle falde acquifere del territorio, quando ne basterebbe un grammo per compromettere una porzione di terra. Ruzzenenti, storico dirigente sindacale della Cgil, la storia della fabbrica la conosce bene perché fu lui a svelarne il male oscuro grazie a un libro, “Un secolo di cloro e…PCB. Storia delle industrie Caffaro di Brescia” (Jaca Book, 2001). All’inizio le autorità tentarono tutte di minimizzare, di disinnescare la bomba causata dai suoi studi. Che però furono puntualmente confermati dalle analisi ufficiali.
Intanto — appunto — non si è fatto nulla, salvo vietare il cammino nei parchi pubblici limitrofi alla fabbrica con ordinanze rinnovate ogni sei mesi da dieci a questa parte. E a parte imbastire intere campagne elettorali sul come intervenire. Si è permesso però alla Snia, proprietaria della Caffaro, prima di dividersi in due e poi di fallire. Senza quindi inchiodare l’azienda alle proprie responsabilità, obbligandola ad accollarsi i costi (enormi) della bonifica. Toccherebbe quindi allo Stato mettere mano al portafoglio per ripulire 7 chilometri quadrati di città (un terzo di Brescia, campi, orti, parchi pubblici anche di alcuni comuni limitrofi) e 21 chilometri quadrati di falde sotterranee adesso nocivi. Fosse facile, poi: «I Pcb di cui l’area Caffaro è ricchissima — spiegava l’ex direttore Arpa e possibile commissario straordinario Giulio Sesana alla commissione Ambiente del Comune — sono sostanze recalcitranti, refrattarie a qualsiasi azione chimica»: ragione per la quale la rimozione è complicata, ma forse pure impossibile. C’è spazio anche per la beffa definitiva ai danni degli abitanti: i contadini della zona sono costretti a pagare l’Ici-Imu su quei terreni ormai inutilizzabili sin dal 2000. «La novità negativa adesso — spiega Ruzzenenti — è l’annunciato totale abbandono dello stabilimento da parte della ditta che aveva preso in affitto parte dei locali della Caffaro, la Fedeli di Pisa. Ciò crea seri sia per la tenuta in sicurezza della falda che per la sorveglianza del sito». Una bomba ecologica alla merce’ di chiunque insomma, monitorata da nessuno. Nel mentre gli indici di diossina nel sangue degli agricoltori della zona e nel latte delle madri volano alla stelle, ci sarebbe la Sogesid, una società per azioni a capitale pubblico e a gestione privata che si doveva occupare di quella come di altre bonifiche. Peccato che, come rivelato dall’Espresso, dal 2008 al 2011 ha incassato più di 400 milioni di euro di fondi pubblici per progettare opere che probabilmente resteranno chiuse in una cassetto. Per il caso Caffaro l’idea era quella di costruire un muro di venti metri interamente sotterraneo, capace di circondare il polo chimico e bloccare così la falda. È finita che la cosa è morta lì, inceppata nei soliti rimpalli a suon di protocolli d’intesa e direttive incrociate. «Serve un contributo straordinario dello Stato, ma è giusto che paghi anche chi ha inquinato — dice il pd Ermete Realacci, presidente della Commissione Ambiente della Camera — Bisogna capire quanto la proprietà industriale della Caffaro può pagare». O meglio: «Più che altro andrebbe capito oggi chi è il rappresentante legale di questa proprietà. A chi chiedere i soldi insomma. Perché in questi anni a nascondere le proprie impronte sono stati proprio bravi».


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