Cina, democrazia e diritti civili: ecco i “vizi” dell’Occidente

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PECHINO. Il «sogno cinese», lanciato da Xi Jinping per aprire anche in Cina un’era kennedyana, non prevede la revisione dell’ideologia di Mao Zedong. A gelare le speranze riformiste, già raffreddate dall’ondata repressiva contro i dissidenti, ci ha pensato lo stesso presidente, scelto tra i «prìncipi rossi» per proiettare la seconda economia mondiale verso una crescita sostenibile. Regola numero uno: l’Occidente resta il male e il nemico da combattere. A chiarire che il rischio di «importare la democrazia» è scongiurato dall’ambizione di «esportare l’autoritarismo» è un documento riservato agli alti funzionari del partito di Pechino, fatto circolare segretamente in aprile e pubblicato a sorpresa ieri dal New York Times.
Tempismo perfetto: domani nel tribunale di Jinan, nello Shandong, si apre il processo contro Bo Xilai, leader neo-maoista arrestato un anno e mezzo fa mentre cercava di dare la scalata al potere, proprio in opposizione all’ala riformista controllata da Xi Jinping. Allora, nel pieno della lotta per la successione a Hu Jintao, i canti rivoluzionari imposti da Bo nella metropoli di Chongqing furono fatti passare come «pericolosamente restauratori».
Nulla in confronto alle «7 idee sovversive» di stampo occidentale contenute nell’esplosivo «Documento numero 9» fatto filtrare negli Usa mentre la Cina si appresta a seguire il processo politico più importante dall’epoca della «Banda dei Quattro». Tra le «minacce contro la società cinese» figurano infatti i capisaldi dei princìpi che ispirano le grandi Costituzioni di Europa e Stati Uniti. I pericoli peggiori? La «democrazia costituzionale dell’Occidente», i «valori universali che definiscono i diritti umani», l’«indipendenza dei media e la libertà di espressione», ma pure «la partecipazione della società civile» alle scelte che spettano allo Stato. Un vero e proprio «manifesto illiberale», che mette all’indice anche le «critiche nichiliste al passato del partito comunista », il «neoliberismo economico orientato al mercato» e le pressioni per «distruggere la censura e il controllo di Internet ».
Se a dettare i «sette comandamenti » per salvare la Cina comunista dal virus dell’Occidente democratico fosse stato il Grande Timoniere, nella seconda metà del Novecento, nessuno si sarebbe stupito. I «pericoli mortali che tentano di demolire la stabilità della potenza che si appresta a dominare il secolo» vengono definiti invece dopo che il Muro di Berlino e l’Urss sono crollati, facendo della Cina la sola dittatura capital- comunista di successo della storia. «Le forze occidentali ostili e i dissidenti — è scritto nel documento approvato da Xi Jinping — cercano di infiltrarsi nella sfera ideologica cinese per contenerne la crescita attraverdentali so la destabilizzazione dei valori ». Propaganda contro propaganda, come negli anni della Guerra Fredda. L’Occidente sostiene il Nobel per la pace Liu Xiaobo, in carcere per aver sottoscritto «Charta 08», e condanna la repressione del dissenso? La risposta di Pechino è la scomunica degli ideali capaci di mobilitare il «mondo libero» che preme per abbattere i regimi sopravvissuti ai loro fondatori.
Non è però un caso che la «lista dei sette vizi capitali» che uniscono l’Occidente contro la Cina sia stata tenuta segreta. Il documento era infatti rivolto all’interno, ai funzionari e ai dirigenti del partito comunista, che avrebbero dovuto tradurlo in «insegnamenti popolari» attraverso i media di
Stato. I nuovi leader cinesi, insediati tra novembre e marzo, erano in allarme per lo scontento seminato tra i falchi della sinistra e i generali dell’esercito, offesi dall’arresto di Bo Xilai, ma pure per le attese riformiste accese nel nuovo ceto medio metropolitano. Attraverso il web, nelle ultime settimane sempre più cinesi hanno chiesto «trasparenza sui beni dei politici», «verità sulla corruzione nel partito», «informazione sulla qualità del cibo e dell’ambiente », o «partecipazione alla definizione di una nuova Costituzione al di sopra dello Stato e del partito». Non la vigilia di un’altra Tiananmen, come nel 1989, ma segnali chiari che crescita dei consumi e urbanizzazione, grazie alla Rete, comportano un dirompente aumento dell’insofferenza alle direttive del Poliburo.
A far scattare l’allarme nella Città Proibita, il rallentamento della crescita e i venti di rivolta che, a causa della crisi economica, scuotono Mediterraneo e Medio Oriente. «Meglio prevenire i disastri delle idee occidentali — recita il documento — che imposte in contesti culturali estranei possono generare una catastrofe sociale». Un’apertura alla sinistra e alle forze armate, pronte a celebrare i 120 anni dalla nascita di Mao, ma allo stesso tempo una frenata alle «fughe in avanti» dei riformisti liberali: tentati, come ha scritto il Quotidiano del Popolo, di «trasformare la Cina nell’America del Duemila». Minaccia fatale, per l’americano Xi Jinping, maestro confuciano di equilibrismo interno. Unica trasgressione: la moglie Peng Liyuan, prima first lady dopo l’ultima moglie di Mao. Debolezza «nel nome dell’immagine di Pechino nel mondo». Ma fuori dalla famiglia l’Occidente, sinonimo di democrazia, resta «un vizio da evitare».


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