CERVELLI SCHEDATI

by Sergio Segio | 19 Agosto 2013 6:33

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È ufficiale. Il presidente Barack Obama ha annunciato che nel 2014 partirà il progetto Brain. Brain vuol dire cervello, ma corrisponde anche alle iniziali di Brain Research Advancing Innovative Neurotechnologies: ricerca sul cervello con neuro-tecnologie avanzate e innovative. Non si tratta tanto e soltanto di un programma medico e scientifico. Dietro c’è un’idea che risale a Cartesio e arriva fino a Foucault e alla cosiddetta bio-politica. La scissione cartesiana tra anima e cervello garantiva la non interferenza tra i due domini, un armistizio tra scienze e religioni. Darwin, nel frattempo, ha dissolto l’anima. Si riduce tutto al corpo e al cervello? Molti studiosi contrappongono la nuda vita, la dotazione biologica comune a tutti gli esseri viventi, alla forma di vita di una specifica persona. I filosofi greci parlavano di zoé, che corrispondeva alla biologia della specie umana, e di bios, la forma di vita di una specifica persona. Se sapessimo tutto sul cervello della specie animale “uomo”, potremmo modificare le forme di vita, il bios dei singoli individui? Oggi la medicina non esita a sostituire alcuni pezzi del corpo, sarebbe lo stesso sostituire alcuni pezzi del cervello? E che interrogativi bioetici porrebbe la possibilità di “scartare” la mente di un feto ritenuta “difettosa”?
Il dilemma è urgente. Sappiamo già quali aree del cervello entrano in azione quando facciamo qualcosa. Conosciamo persino l’origine biologica di abilità sociali come l’empatia, il riuscire a mettersi nei panni degli altri, grazie ai lavori del gruppo di Parma, guidato da Giacomo Rizzolatti. Si potrebbe dire, sbrigativamente, che questa tradizione si basa per lo più di esami “dall’esterno” del cervello. Immaginate di non conoscere le automobili e di dover cercare di capire come funzionano esaminandole soltanto dall’esterno. Per localizzare il motore potreste, per esempio, misurare la quantità di calore emanato dalle varie parti. Qualcosa di simile è stato fatto con il cervello umano. Il segnale in questo caso non è il calore, bensì il livello di attività della circolazione sanguigna nel cervello durante l’esecuzione di un compito (guardare qualcosa, ricordare un nome, fare un ragionamento, decidere, scegliere, e così via).
Le diverse aree del cervello sono, a loro volta, composte di miriadi di neuroni e il progetto Brain vuole capire meglio come funzionano, da soli e in collegamento. È un’impresa grandiosa. Proprio per questo è stata paragonata a Genoma, la mappa completa della sequenza del genoma umano. Questo progetto, innescato anche dai lavori pionieristici di Renato Dulbecco, ci ha permesso, tra l’altro, di combattere il cancro. Nel caso di Brain la speranza è sconfiggere le malattie che derivano dal disgregarsi delle cellule del cervello, come l’Alzheimer.
Ma per quanto importanti siano le speranze di cure, va precisato che questo progetto fa parte di una strategia più ampia dell’amministrazione statunitense. Se pensate che istruzione e ricerca siano costose, aspettate di vedere quanto può costare l’ignoranza nel Ventunesimo secolo — ha detto poche settimane fa Obama. In Italia si stenta a capire che gli investimenti in questo settore sono cruciali. Anche qui, però, ci sono speranze. A Cortina d’Ampezzo proprio oggi, per esempio, Carlo Carraro, economista e rettore a Ca’ Foscari, parlerà dei programmi dell’università veneziana insieme a esponenti illuminati del mondo dell’industria e della finanza. Per dare un’idea del solo impatto economico di progetti come Genoma, basti pensare che le ricadute dei quattro miliardi dollari investiti inizialmente dal governo statunitense sono di circa ottocento miliardi.
E tuttavia, come dimenticare i dilemmi morali che potrebbero discendere proprio dal successo futuro di Brain. La commissione bioetica di Washington è chiamata in causa. Su cosa dovrà vigilare? Le preoccupazioni nascono dal fatto che anche se tutto passa per il cervello, non tutto dipende dal cervello. A metà Ottocento, per eliminare la morte dei neonati, oppure il colera, non è servito capire i processi interni al corpo degli ammalati. Era cruciale analizzare quello che succedeva prima, all’esterno dei corpi. Ignaz Semmelweis si accorse che alcuni ginecologi non si lavavano le mani quando facevano nascere i bambini. Allo stesso modo, il medico inglese John Snow scoprì l’origine del colera analizzando le condizioni igieniche dell’acquedotto londinese. Fu così aperta la strada a una nuova disciplina: l’epidemiologia.
Odilia Laceulle, dell’Università di Groninga, in un lavoro appena pubblicato, ha studiato l’origine dei disturbi mentali di 2.163 gemelli. Questi dipendono per metà da fattori ereditari e, per l’altra metà, dalle condizioni dell’ambiente in cui sono cresciuti. Ora, se noi capissimo in ogni dettaglio il funzionamento del cervello, potremmo ammortizzare gli effetti delle cause non ambientali. Restano però i fattori esterni.
Helen Longino, dell’Università di Stanford, in un saggio del 2013, ha criticato l’attuale tendenza degli studiosi statunitensi a cercare dentro l’individuo quelle che sono le conseguenze, e non le cause prime dei mali. Per esempio, la diminuzione della violenza e della delinquenza a New York, dal 1985 al 1997, non è dovuta all’aver compreso la natura dell’empatia e delle sue basi neurali, ma a una diversa organizzazione dell’ordine pubblico.
Insomma, come dimostra il dibattito in corso in questi giorni in America (sul New York Times l’11 e il 16 agosto, per esempio), il progetto Brain ha delle ricadute etiche e politiche enormi. Il programma Brain si colloca all’interno della strategia dell’amministrazione Obama volta a far star meglio i poveri – la categoria più esposta ai fattori sociali negativi – limitandosi a modificare i loro comportamenti individuali, e cioè il modo di fare le scelte più rilevanti. È una visione del mondo “riduzionistica”, cioè che riduce lo zoé a bios: lo Stato interviene sul singolo e non sull’insieme dei cittadini e delle loro relazioni. Il saggio Simpler di Cass Sunstein (uno dei più ascoltati consiglieri del presidente americano), appena uscito, è un resoconto, forse ottimistico, dei successi ottenuti modificando l’architettura delle scelte nel campo delle pensioni, della prevenzione medica e delle abitudini collegate all’alimentazione, per citare le criticità più rilevanti presso i ceti svantaggiati.
Ora, è sufficiente modificare le scelte inconsapevoli degli individui, e la loro personale dotazione cerebrale, per avere un futuro migliore, o ci avviamo verso la realizzazione di un incubo, un Orwell aggiornato?

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