by Sergio Segio | 17 Agosto 2013 6:28
ROMA — Sono giorni drammatici per un Silvio Berlusconi che, di ora in ora, sente crescere l’angoscia, la rabbia, il dolore. Chiunque gli parli, chiunque riesca a superare la barriera protettiva di Villa San Martino, già quasi trasformata in un rifugio, lo descrive come «profondamente ferito», come un leone in gabbia.
Quella nota di Napolitano che in un primo momento lo aveva lasciato freddo ma ancora non ostile, e che invece le colombe del Pdl avevano apprezzato leggendovi qualche passaggio incoraggiante, ora al Cavaliere — che ieri ha passato tutta la giornata a studiare le carte con i suoi avvocati — appare come la pietra tombale sulla sua vita politica, e come una ciambella bucata per un naufrago. Nulla che possa servire, nulla che possa salvarlo.
Così i suoi fedelissimi, falchi o colombe che siano, aspettando le sue decisioni definitive, da una parte continuano a chiedere «una soluzione» che eviti il baratro, e lo fanno rivolgendosi sia a Napolitano sia agli alleati del Pd. Dall’altra, hanno comunque ripreso a ragionare su uno scenario che sembrava allontanato: la crisi di governo quando la giunta per le Immunità del Senato voterà sulla decadenza di Berlusconi e Pd e Pdl si divideranno. E le possibili conseguenti elezioni a breve, dopo i due obbligati passaggi della legge di stabilità e dei ritocchi alla legge elettorale.
Da martedì sera dunque tante cose sono cambiate. Non solo l’umore di Berlusconi, che si è fatto sempre più nero. Ma anche le convinzioni di chi, fra i suoi, aveva sperato che una soluzione potesse essere trovata, e che oggi in effetti la vede come «quasi impossibile». L’uscita di ieri del ministro delle Riforme Gaetano Quagliariello è esattamente il grido d’allarme di chi avverte che, se non si inverte la rotta, tutto può saltare da un momento all’altro: «Non bastano le parole di Napolitano a blindare il governo Letta, il traguardo del 2015 è tutto da conquistare. Il governo deve respirare con i propri polmoni».
Raccontano anche fra le colombe del Pdl che tutti, a leggerla bene, hanno capito che nella nota di Napolitano non c’era né il massimo che si sperava — una promessa di grazia motu proprio, di atto di clemenza — ma nemmeno il minimo. Quello che i capigruppo erano andati a chiedere al capo dello Stato con veemenza, e cioè «l’agibilità politica» per il loro leader in qualunque modo questa si potesse ottenere, nelle 90 righe di esternazione scritta non era né garantita né indicata: «È come se ci avesse detto che su questo dovevamo vedercela noi del Pdl, e contava solo il governo», spiega una delle colombe.
Ci sarebbe certo un percorso, «arduo, difficile ma possibile», se Berlusconi collaborasse. Ma il filo si spezzerà se, come ripete ancora in queste ore il Cavaliere, non ci sarà alcuna sua disponibilità a «chinare la testa»: «Non ho intenzione di chiedere i servizi sociali, non ho bisogno di essere rieducato io. Non mi dimetterò, perché non c’è nulla che io abbia fatto che debba portarmi a questa decisione. E non chiederò la grazia, che sarebbe un’ammissione di colpa e non so nemmeno se servirebbe a riacquistare i miei diritti politici. Le condizioni che pone quella nota sono inaccettabili», dice Berlusconi a chi gli parla in queste ore.
Pare granitico, l’ex premier. E i suoi, sconfortati, pur sapendo che «ancora tutto può ancora accadere», che sarà comunque lui alla fine «da solo e senza condizionamenti» a decidere il da farsi, si preparano ad ogni scenario. Continuano appunto a chiedere collaborazione agli alleati, perché come dice Berlusconi «se cade il governo non è un problema solo mio, ma anche di chi lo sostiene e del capo dello Stato che lo ha voluto». E sperano che si possa intanto almeno rimandare il voto in giunta di qualche settimana, magari di un paio di mesi per far maturare in meglio la situazione. E però, nello stesso tempo, si ragiona anche realisticamente, esattamente come sta facendo Berlusconi ascoltando uno per uno i suoi fedelissimi, che nei prossimi giorni singolarmente convocherà ad Arcore per farsi un’idea della situazione, per sentirli e fiutare l’aria e per poi annunciare quali saranno le sue mosse.
E dunque, la situazione al momento vede un capo dello Stato che ha compiuto dei passi ma che oggi oltre non può o non vuole andare. Un Pd che, se lo vuole, «ha in Senato rispetto a noi una maggioranza schiacciante per far prevalere le proprie posizioni: se decidono che si dovrà votare presto, si voterà presto. Ci potrà essere uno slittamento di un paio di settimane, ma poi il verdetto arriverà». E a quel punto, se alla fine Berlusconi non fermasse il treno in corsa dimettendosi ed evitando che si arrivi al voto, la collisione sarebbe pressoché inevitabile. Con un sì alla decadenza del Pd e un no del Pdl, il governo sarebbe «di fatto un’esperienza conclusa», tanto che già oggi l’esecutivo Letta è considerato «precario».
A quel punto, si aprirebbero tre strade. La prima, quasi impossibile, di un voto immediato, entro l’autunno: Napolitano ha già detto che non scioglierà le Camere in assenza di una nuova legge elettorale. La seconda è pure difficile: un nuovo governo andrebbe formato per arrivare al 2015, concludendo il percorso delle riforme e dando slancio alla timida ripresa economica che si vede all’orizzonte, ma quanto reggerebbe con il Pdl fuori e l’unione di Pd e grillini? Infine, c’è la terza opzione, considerata la più probabile: con la crisi, Napolitano potrebbe far nascere un governo di scopo per riformare la legge elettorale e varare la legge di stabilità, prima di andare alle urne nella primavera del 2014. E nel Pdl molti pensano già che, in questo caso, converrebbe far parte in qualche modo della partita sostenendo il governo di scopo, per evitare una legge elettorale sfavorevole. Discorsi prematuri, forse. Ma aspettando che il Cavaliere sciolga la riserva, è bene cominciare a capire se esiste, e dov’è, un’uscita di sicurezza.
Paola Di Caro
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