Alla fine Manning chiese scusa

by Sergio Segio | 17 Agosto 2013 7:33

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«Prima di tutto, vostro onore, vorrei cominciare con una richiesta di scuse. Chiedo scusa se le mie azioni hanno danneggiato qualcuno. Chiedo scusa se le mie azioni hanno danneggiato gli Stati Uniti». Con queste parole Bradley Manning, il giovane analista informatico dell’esercito statunitense, davanti alla corte marziale per aver passato documenti riservati a Wikileaks, si è rivolto mercoledì per circa tre minuti alla giudice nell’ultima udienza prima della sentenza. Al contrario della sua ultima dichiarazione a febbraio, in cui aveva rivendicato, con garbo e fermezza, la bontà delle sue intenzioni, stavolta Manning ha assunto un tono dimesso.
«Capivo quello che stavo facendo, ma non capivo le conseguenze più ampie delle mie azioni». E ancora: «Quando presi quelle decisioni volevo aiutare, non danneggiare . Ripensandoci, avrei dovuto operare più aggressivamente all’interno del sistema». Con finale hollywoodiano: «So di avere difetti e problemi da risolvere, ma so che posso essere e sarò una persona migliore. Spero che mi potrete dare l’opportunità di dimostrare, con la condotta e non con le parole, che sono una brava persona e che potrò tornare ad avere un ruolo utile nella società».
Secondo Wikileaks, le scuse di Manning sono «tattiche» e gli sono state «estorte». Dopo mesi di battaglie legali, dice una nota, «non c’erano più strade da percorrere. L’unica moneta che accetta la corte militare è l’umiliazione di Manning». E aggiunge che «in un processo equo, sarebbero gli Stati Uniti a dovergli chiedere scusa».
Gli atti del processo al giovane soldato americano sono stati per gran parte mantenuti segreti al pubblico. Secondo la giornalista del Guardian che ha seguito il caso da Fort Meade, nel Maryland, dove si svolge il processo, «è importante notare che Manning non ha detto di aver danneggiato gli Stati uniti». Nonostante i tentativi dell’accusa, nella parte di udienze aperte al pubblico molti dei testimoni dell’accusa hanno smentito che vi siano stati danni o decessi dovuti al rilascio dei documenti. La giornalista si dice ammirata dall’atteggiamento candido di Manning durante tutto il processo, e dalla sua capacità di trasmettere fascino ed empatia.
Tra le testimonianze raccolte nella fase in cui la giudice colonnello Denise Lind deve decidere che pena merita il soldato (una pena che può arrivare al massimo a 90 anni dopo che è stato scagionato a luglio dall’accusa più grave, l’aiuto al nemico), anche quella di uno psichiatra forense, David Moulton. «Con la sua azione – aveva detto – era convinto che avrebbe potuto modificare il punto di vista del mondo sulla guerra in Afghanistan e Iraq e che la società sarebbe giunta alla conclusione che nessuna guerra vale la pena».
La strategia della difesa in questa ultima parte del processo si è concentrata sui problemi personali dell’accusato, fra cui quelli di identità sessuale e la sua infanzia difficile. Il dottor Michael Worsley ha testimoniato che il soldato soffriva di «disforia di identità di genere», cioè che sentiva che sarebbe dovuto nascere donna, e che l’ambiente militare «ipermascolino» e «apertamente ostile» gli ha impedito di chiedere aiuto. Secondo i due medici, il Don’t ask, don’t tell – il regolamento militare recentemente riformato dall’amministrazione Obama che prevedeva per il personale omosessuale il divieto di rendere noto il proprio orientamento sessuale – certamente rendevano la vita più ardua per soldati come Manning.
Anche sua sorella e sua zia hanno testimoniato, sostenendo che la madre di Bradley era una forte bevitrice durante la gravidanza e anche dopo. E fu quindi proprio la zia a prendersi cura di un bambino «isolato, intelligente e curioso» che riteneva che il modo migliore per arrivare al college fosse proprio quello di arruolarsi.
La sentenza definitiva è attesa per la prossima settimana.

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