Afghanistan: la ricostruzione del sistema educativo afghano
Hassina Sherjan è un imprenditrice afghana che ha vissuto per 23 anni negli Stati Uniti, dopo essere fuggita con la sua famiglia durante l’invasione sovietica. È tornata nel 1999, quando ancora i Talebani governavano il Paese e ha creato cinque classi clandestine per l’istruzione di 250 ragazzine. Quando il regime talebano è caduto è stata una dei tanti afghani che avevano vissuto all’estero e che erano tornati nella loro terra con la speranza di poter ricostruire un paese in macerie. L’associazione che oggi gestisce, Aid Afghanistan for Education (AAE), cerca di fornire l’istruzione primaria e secondaria a coloro che ne sono stati privati a causa della guerra. Molti ragazzi e ragazze che hanno interrotto i loro studi e non hanno potuto beneficiare dell’istruzione possono così recuperare in pochi anni il tempo perso e reinserirsi nei programmi scolastici del governo. “Uno dei nostri studenti di 20 anni che frequentava la quarta elementare mi ha detto che se non era per questo programma non avrebbe mai potuto scrivere il suo nome”, racconta soddisfatta Hassina, seduta nel suo studio nel quartiere di Qala e-Fathullah a Kabul. “La nostra ex cuoca nella prima scuola che aprimmo nel 2003”, prosegue soddisfatta “aveva sempre voluto diventare un’insegnante, ma l’arrivo dei talebani non le permise di completare gli studi. Grazie al nostro programma, nel quale è riuscita ad entrare, ha studiato per altri due anni e adesso è una insegnante di matematica”.
Il programma prevede il recupero degli anni scolastici perduti, una sorta di “Grandi Scuole” all’italiana e il rilascio di un certificato riconosciuto dalla Repubblica Islamica d’Afghanistan. Lo studente che lo consegue può proseguire ed iscriversi all’Università: “La nostra organizzazione – spiega la direttrice di AAE – lavora per gli afghani marginalizzati”. La maggior parte degli studenti hanno superato il decimo anno di età e non hanno mai frequentato una scuola. Se per molti di loro le guerre e la povertà, legata alle precarie condizioni in cui il paese ha vissuto per decenni è la ragione principale di abbandono degli studi, per le bambine l’istruzione si interrompe anche a causa di matrimoni precoci. Una ragazzina di 15 o 16 anni sposata difficilmente accetterà di tornare a sedersi in una classe. Aid Afghanistan for Education conta 13 scuole in 9 diverse province. Tre di queste sono a Kabul. Il personale si “ritiene” fortunato ad avere avuto soltanto un “attacco” da parte dei talebani in oltre dieci anni di attività. “Fortunatamente”, spiega Hassina, “siamo fortunati. Abbiamo avuto soltanto un attacco ad una delle nostre scuole nel 2006 nella provincia di Wardak”. Anche se è stato l’unico incidente, l’organizzazione, dopo aver consultato gli abitanti del villaggio che preferivano la scuola non fosse riaperta per evitare nuovi incidenti, ha deciso di cessare l’attività nel distretto.
La ricostruzione del sistema educativo afghano è oltre ad una grande sfida anche una missione che coinvolge sia il governo afghano che la comunità internazionale. Se nell’ultimo decennio ci sono stati grandi passi avanti, è anche vero che il lavoro da fare per garantire alle nuove generazioni afghane un’educazione basilare è ancora impegnativo. Il Ministro dell’Educazione Ghulam Farooq Wardak, durante la visita in una scuola di Kabul un mese fa aveva lanciato l’appello ai donatori internazionali: “tre miliardi di dollari in aiuti sarebbero sufficienti per costruire 8mila scuole e permettere ad altri 3 milioni di bambini di iscriversi nei prossimi due anni”. Secondo l’UNICEFF, i ragazzi che frequentano le scuole primarie e secondarie sono poco più di 4 milioni mezzo, mentre le ragazze 2 e mezzo. Gli insegnanti sono oltre 170mila, di cui 51mila di sesso femminile.
Secondo Hassina, “Dopo 30 anni di guerra il ministero deve disegnare delle politiche che servano l’attuale emergenza e i bisogni delle persone. C’è bisogno di una riforma dell’insegnamento, perché stiamo ancora insegnando nella maniera in cui gli studenti imparano a memoria e poi trascrivono tutto. Ed è abbastanza faticoso che quando ti diplomi non sai veramente cosa significa imparare”. Ma sfortunatamente, prosegue, “non vedo nessuna discussione nel governo per la riforma del sistema di educazione. Pubblicano nuovi libri ogni anno e questo è anche fastidioso perché sarebbe meglio venissero pubblicati libri che si possono usare anche per gli anni successivi. Non si possono produrre libri solo per sperimentarli”.
Ma nonostante gli sforzi di questi anni e il forte impatto che l’attività dell’organizzazione ha dato a tanti giovani, maschi e femmine, permettendo loro di realizzare sogni e desideri, con la partenza della comunità internazionale o quanto meno la riduzione della presenza internazionale in Afghanistan, anche associazioni come AAE devono affrontare un drastico taglio dei finanziamenti. “Il ministero ci ha supportato fino al 2007. Avevamo un accordo con loro per essere sicuri che i nostri studenti ricevessero un diploma di scuola superiore dal momento che si diplomavano”, spiega la direttrice della ONG. “Così – va avanti – ricevevano il diploma di scuola superiore dal ministero per andare avanti all’Università o ovunque volessero andare. In questo senso abbiamo avuto molto supporto. Ma adesso che abbiamo una crisi di fondi, probabilmente ci sarà uno stop dei finanziamenti. Speravo che il ministero facesse un passo e prendesse il programma come un “programma A”, ma non sembra che questo succederà. Stiamo lavorando con la società civile per mettere pressione per una riforma dell’educazione. Non c’è altro che possiamo fare”. “Personalmente – è il messaggio di Hassina Sherjan alla comunità internazionale e al governo – non voglio prendere la responsabilità di 3000 studenti. È una responsabilità nazionale. Tutti facciano un passo per essere sicuri che i nostri studenti continuino e non soltanto per loro ma anche per noi, per essere capaci di continuare a estendere il programma nel resto del paese”.
Che prima o poi l’Afghanistan sarebbe dovuto rimanere da solo non era una novità. Come non è una novità che molti dei fondi stanziati dai donatori internazionali siano finiti nelle mani sbagliate. Ma per Hassina la strategia di uscita dal paese della comunità internazionale andrebbe studiata meglio: “Non penso – dice – che i donatori dovranno essere qui permanentemente ma credo che ci dovrebbe essere una migliore strategia di uscita. Una cosa è quando ci sono piccoli progetti che poi vengono interrotti senza colpire molte persone, un conto quando parliamo di 3mila studenti… 3mila famiglie. Ci dovrebbe essere un piano migliore”.
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