Acquisizioni come segnali di ripresa le aziende hanno fretta di riorganizzarsi

by Sergio Segio | 8 Agosto 2013 6:56

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Alcuni a sensazione come i casi Amazon-Washington Post, Qatar-Magazzini Printemps, Hudson-Saks, altri — come ad esempio la conquista da parte degli spagnoli di Aena del terzo aeroporto di Londra (Luton) — che addirittura vengono archiviati con poche righe. Il fenomeno ha evidenti dimensioni globali ma ha già interessato il nostro Paese e il trend dovrebbe rafforzarsi.
È interessante innanzitutto sottolineare come al centro di questo ciclo di acquisizioni ci siano i settori «leggeri» come grande distribuzione, editoria o pubblicità come nel caso del merger Publicis-Omnicom. Ma il fenomeno è comunque più largo e investe il manifatturiero. Finora sotto i colpi della Grande Crisi abbiamo registrato movimenti più silenziosi, le aziende grandi e piccole si sono più volte ristrutturate e stavolta il dimagrimento non ha riguardato solo il numero dei dipendenti ma per certi versi il modo stesso di stare sul mercato. Si pensi al successo di una parola da addetti ai lavori come «filiera»: il suo ripetersi nelle conversazioni con i protagonisti dell’economia segnala un focus, ci si sta concentrando sulla razionalizzazione dell’intero processo. La crisi lo ha imposto e le aziende più attente si fanno «rete». Non va più di moda studiare le multinazionali ma molte di esse sono diventate da tempo delle reti che incrociano mercati-Paese, brand, impianti produttivi, comunicazione con una flessibilità prima sconosciuta. I temi della logistica, per fare un altro esempio, sono anch’essi usciti dal ristretto cerchio dei seminari ad hoc e il riferimento costante al successo di Zara ne è la riprova. Per parlare di noi italiani, e non sentirci fuori dal gioco, ha destato grande interesse il lavoro di Renzo Rosso che si è proposto di ottimizzare quello che appare il triangolo decisivo del business moderno: azienda madre, fornitori, banche.
Il ritorno di un mercato vivace delle acquisizioni segnala che molte aziende hanno concluso — almeno temporaneamente — questa fase sommersa della propria riorganizzazione e hanno deciso di uscire a pelo d’acqua e vedere cosa sta capitando. È chiaro che la Grande Crisi ha ridotto la capacità produttiva globale, ha selezionato darwinianamente gli operatori e quindi ha già in qualche maniera modellato il «dopo». Che una fase di questo genere dovesse essere attraversata lo si doveva tutto sommato prevedere perché, al netto della recessione, lo avrebbero richiesto la globalizzazione e l’avanzata dei nuovi Paesi produttori. Facendo il suo «lavoro sporco» la crisi ha anche tagliato molte diseconomie e sovrapposizioni, ha mandato fuori mercato realtà che faticavano a tenere la strada, il tutto però a strappi e con una bassissima interazione con le istituzioni economiche ed extraeconomiche. Ora però le aziende, intravedendo la fine della recessione, sembrano avere ripreso a produrre soggettività. Individuare questo o quel mercato, questa o quella preda, questa o quella forma di accorpamento, sono le variabili decisive di questa fase.
Le acquisizioni classiche, quelle che si possono spiegare anche a un bambino, hanno il segno del consolidamento. Gli operatori si concentrano per rafforzare il controllo sul cliente/mercato. In Europa poi le aziende costano relativamente poco, in alcuni casi si spende meno a comprare che a metter su una nuova struttura. Diciamo che gli esperti stimano in 6-7 volte il margine operativo lordo il costo di transazione di un’azienda del Vecchio Continente contro 10-12 volte negli States. Ed è facile, dunque, che molti in questo momento siano tentati dalla possibilità di utilizzare questa finestra temporale.
I grandi settori manifatturieri sembrano del resto richiedere maggiore concentrazione, del resto di fronte all’offensiva cinese le strade prevalenti sono due. O si diventa più grandi restando però sempre snelli o ci si dedica alle nicchie (come per vocazione facciamo noi italiani). Occhio, dunque, a quanto potrà accadere soprattutto nella siderurgia e nell’industria degli elettrodomestici. Ma anche nell’industria dei media il trend è lo stesso. E ha destato un certo interesse l’affermazione dell’amministratore delegato di Luxottica, Andrea Guerra, che ha ammesso la possibilità di nuove concentrazioni internazionali nel business degli occhiali.
Il secondo tipo di acquisizione in voga è quello stimolato dalla necessità di estendersi geograficamente. È uno shopping molto oculato ed è praticato anche da diverse nostre aziende, le multinazionali tascabili del made in Italy. Amplifon che compra in Australia è forse l’ultimo esempio in ordine di tempo ma un caso di scuola che incrocia nuovi mercati e brand è quello della Campari. Anche aziende poco conosciute come i veneti di Stevanato Group hanno da poco comprato i danesi di Innoscan. I bergamaschi di Deltamatic dopo un corteggiamento durato un anno hanno acquisito la tedesca Goebel (macchine utensili) diventando così leader mondiali nel loro segmento. Come si può constatare anche solo da questi casi il processo di acquisizione è bidirezionale, non è vero che noi italiani siamo sempre e comunque prede. È chiaro che se un marchio di cioccolato passa di mano dagli italiani ai turchi fa più sensazione dell’acquisto di un’azienda tedesca meccanica da parte di un’impresa lombarda. Ma tant’è. La dimostrazione di come nel mondo delle Pmi italiane i processi di accorpamento possano subire una forte accelerazione è dimostrato dal fatto che una banca d’affari americana, la Lincoln International, abbia comprato a fine luglio la Rondelli Advisers, una boutique specializzata proprio nel merger and acquisitions.
Gli esperti segnalano anche due altre — per ora solo potenziali — direttrici di questo movimento. Le acquisizioni in settori limitrofi al proprio business nei quali però si possa utilizzare il capitale di competenze vuoi tecnologiche vuoi logistiche che già si possiedono. E, infine, lo shopping per andare a valle, per avvicinarsi al cliente finale. Se Loro Piana fosse stato solo un magnifico produttore di oggetti in cachemire non avrebbe strappato quel prezzo ai francesi della Lvmh, il fatto invece di avere propri negozi e di conseguenza di conoscere i consumatori e capirne i gusti meglio di chiunque altro ha raddoppiato il valore della società biellese .

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