by Sergio Segio | 31 Agosto 2013 6:13
FABIO Tufilli sperava di aver risolto un problema, a marzo, quando la Sapienza di Roma gli ha comunicato che sarebbe stato assunto a tempo indeterminato. Ormai raggiunti i 33, da sei anni inanellava contratti da precario come “amministrativo” dell’università. Ciò che non aveva previsto, è che un lavoro che in genere viene definito “normale” sarebbe rimasto fuori dalla sua portata.
IL CONTRATTO offerto era sì permanente, ma sarebbe passato da tempo pieno a part-time.
Casi come questo stanno diventando talmente comuni in Italia che l’Istat ha dovuto trovare una nuova definizione: sono posti di lavoro “parzialmente standard”. Certo esistono anche diverse gradazioni di “non standard”, dagli autonomi con un solo cliente e turni vincolati, ai contratti a progetto, ai collaboratori. Ma le classi diverse da quella che un tempo era la normalità si stanno moltiplicando così in fretta da rischiare di rovesciare il significato delle parole: ciò che è “standard”, un posto di dipendente permanente a tempo pieno, in Italia sta diventando il suo opposto. La maggioranza dei lavoratori è in posizioni che di solito si definiscono in modi che sottintendono l’eccezionalità: “atipici” o, appunto, “non standard”.
La soglia del sorpasso non è stata varcata, secondo l’Istat, ma si avvicina. I dati diffusi ieri dall’agenzia dicono che gli abitanti in Italia con contratti a tempo indeterminato e a pieno compenso sono dodici milioni, cioè un residente su cinque e il 53,6% degli occupati. È un gruppo che si restringe: erano il 57% nel 2005, da allora non hanno mai smesso di diminuire e nell’ultimo hanno perso più di circa 300 mila unità. Intorno a loro crescono i part-time, spesso involontari, e i contratti cosiddetti “atipici”, mentre l’esplosione da quattro a cinque milioni nel numero di partite Iva dal 2007 al 2012 spesso maschera forme di lavoro dipendente senza assunzione. «In certe aree del settore privato non è raro che a un addetto venga chiesto di licenziarsi e tornare alle stesse mansioni come partita Iva», osserva la sindacalista Cgil Tina Balì.
Ma se si guarda più da vicino ai dati dell’Istat, appare probabile che il sorpasso già oggi sia una realtà. Nel 2013 i lavoratori “standard” rappresentano una quota di minoranza una volta confrontati a tutti gli altri gruppi del mondo del lavoro. I dati Istat per esempio includono almeno 240 mila cassaintegrati fra i dipendenti con impiego “permanente” a tempo pieno, ma è lo stesso istituto a stimare che, in media, torna davvero al lavoro non più un cassaintegrato
su tre. Quando si scomputano gli addetti in Cig, i posti di lavoro considerati normali scendono al 52% circa del totale. Questo valore però non tiene conto dei tre milioni di disoccupati, persone senza impiego che però sono in cerca di una sistemazione. Una volta inclusi questi ultimi nel panorama del mondo del lavoro, gli addetti «standard» scendono ancora e risultano al 47% del totale dei lavoratori. Meno della metà. Insomma ciò che per generazioni è stato identificato con la norma, non lo è più.
Ovviamente non tutte le forme di lavoro “non standard” si somigliano: per esempio molti part-time, benché non a compenso pieno, godono delle stesse tutele contrattuali dei contratti permanenti. Ma la loro crescita negli ultimi anni indica che in molti casi non si tratta di scelte spontanee. E non sarà facile invertire la tendenza, che anzi accelera: l’Isfol, una struttura del ministero del Lavoro, nota che oggi solo il 16% dei nuovi contratti firmati sono a tempo indeterminato e molti non lo diventeranno mai. «Ormai è piuttosto raro che chi entra in un’azienda da precario poi venga stabilizzato a tempo pieno», dice Stefano Sacchi dell’università di Milano e del Collegio Carlo Alberto di Torino. Sacchi si chiede quanto possa essere efficiente un paese in cui
l’occupazione è sempre più frammentata e chi offre lavoro, poiché lo fa per poco tempo o senza assumere, tende a investire poco nella formazione di chi produce.
Certo quando ciò che si ritiene lo “standard” diventa minoranza, qualcuno prima o poi vorrà trovare una nuova forma di normalità. Per Tufilli coincide ancora con quella che conosceva dai suoi genitori: «Conto ancora che prima poi mi assumeranno a tempo pieno», dice.
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