L’obiettivo è il congresso «Non voglio fare la fine di Prodi e Veltroni»

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I giornali scrivono del derby tra il sindaco e il premier. Ma lui sorride e non ci crede: «Non posso avere paura di Enrico, se non altro perché ho dieci anni meno di lui». E stop lì, senza aggiungere altro. Per il resto, «lettiani e lettini», vadano per conto loro, lui, Renzi, è pronto ad «andare in giro per l’Italia» a sostenere il Pd: «Sento che questa è la mia missione, voglio cambiare la sinistra, il Partito democratico e l’Italia».
Perciò è pronto a mettere «un gruppo dirigente nuovo» ai vertici del Pd. O a seguire l’idea di Goffredo Bettini: «Primarie per tutto, non solo per i candidati, anche per i programmi». Su questo Nichi Vendola ci sta: «Matteo potrebbe essere il leader del centrosinistra, se queste sono le condizioni». E a quelle — di condizioni — Renzi si attacca, perché sa che è attraverso quel pertugio che riuscirà ad averla «vinta sull’apparato». «Io — ripete il sindaco — mi metto in gioco anima e corpo, non c’è nessuna tattica e non c’è nessuna partita di posizionamento: voglio veramente correre il rischio di guidare questo partito, di dargli una fisionomia, cosa che finora non ha avuto».
È per questa ragione che la partita di Renzi nell’immediato riguarda solo il congresso: «Non ci sono più alibi, il governo non cadrà, quindi dobbiamo fare le assise nazionali a stretto giro». Con gli amici il sindaco è più esplicito: «Non mi faccio fregare, non voglio fare la fine di Prodi o di Walter: ci hanno detto che il congresso sarà il 24 novembre e io sono pronto per quella data. Se vincerò, il Pd non sarà più costretto ad andare avanti lasciando campo libero a Berlusconi, se vincerò il Pd ripiegato su se stesso e asfittico non ci sarà più: voglio incontrare l’onda lunga della speranza».
Renzi va avanti. Non vuole la fine delle larghe intese e Letta, ma non vuole neanche vederle sopravvivere oltre ogni limite. Su questo è chiaro: «Serve un governo politico, non un governo delle larghe intese perennemente costretto alle mediazioni». Renzi cerca e continuerà a cercare la data del congresso: «È il 24 novembre. La data è quella e non credo che nessuno voglia più mandare oltre la pratica». In questo sa di avere come alleati una parte dei suoi avversari interni. D’Alema, per esempio, che ha già mandato il suo messaggio al sindaco di Firenze: «Non lo sosterrò mai per la corsa alla segreteria, ma non lo ostacolerò con giochetti e astuzie: se sarà lui, farò la minoranza interna, come è giusto che sia». O Matteo Orfini, che su questo punto ha una sola parola: «congresso subito».
C’è un’unica grande paura che accomuna Renzi e i suoi avversari: il «partito del fare». Così lo ha ribattezzato un renziano come Angelo Rughetti. E a lui l’onere di delinearlo: «C’è chi vorrebbe cambiare le carte in tavola e dare vita dal governo a una forza politica in grado di soffocare Berlusconi e tarpare le ali a Renzi: Lupi, Monti, Casini e Fioroni, tanto per fare dei nomi, non aspettano altro. Quelli stanno già preparando il partito della large intese».
È uno scenario che Renzi ha ben presente, ma il sindaco sa anche quante pecche presenti questo piano. Ne ha avuto riprova anche ieri. Quando ha visto Franceschini affrettarsi a dire a «Repubblica» che il governo «ha fatto molte cose di sinistra». O quando ha letto Epifani che all’Unità ha ammesso «quella che è stata presa dal governo sull’Imu non è la direzione che noi avremmo percorso».
All’elettorato le larghe intese non piacciono . Ed è per questo che Renzi ha gioco facile nell’assicurare: «Non sarà mai più così. Basta andare appresso a Berlusconi come abbiamo fatto finora, l’indirizzo al governo lo darà il Pd». E Letta trema. Perché al di là delle reciproche rassicurazioni il premier sa che può andare avanti solo per compromessi e che un Pd forte, targato Renzi, inevitabilmente apre una nuova stagione.
Maria Teresa Meli


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