Troppo basso il salario minimo è sciopero nei fast food Usa

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NEW YORK — Hanno perfino occupato Zuccotti Park, il celebre giardino vicino a Wall Street da dove partì il movimento Occupy Wall Street. Il nesso non è casuale, la voglia di identificarsi con un luogo così simbolico la dice lunga sulla natura “radicale” di questo movimento. Una parola eccessiva? Forse
non in America, nazione dove il termine “sciopero generale” è sparito dal linguaggio corrente da molti decenni. Ieri ben 50 città americane, incluse tutte le più grandi, sono state il teatro di questo evento inaudito: uno sciopero coordinato in tutti i fast-food. La rivolta dei “lavoratori poveri” ha bloccato i ristoranti McDonald’s, Burger King, Kentucky Fried Chicken, Taco Bell e tanti altri. E’ il culmine di una protesta che nacque qui a New York un anno fa. L’agitazione di ieri, la più larga finora, ha coinvolto Boston, Chicago, Denver, San Diego, Indianapolis e molte altre. L’obiettivo dello sciopero: un incremento della paga oraria dagli attuali 9 dollari a 15 dollari l’ora (ma in alcuni fastfood i dipendenti ricevono appena il salario minimo federale che è 7,25 dollari l’ora). «Hey hey, ho ho, poverty wages gotta go!» è uno degli slogan più cantati: chiede che «i salari da miseria scompaiano». Effettivamente con 9 dollari l’ora molti di questi lavoratori finiscono sotto la soglia della povertà ufficiale, sono costretti a pietire assistenza pubblica sotto forma di food
stamp: proprio così, lavorano nei fast-food e non guadagnano abbastanza per nutrirsi, hanno bisogno dei buoni-pasto federali assegnati ai poveri. Nei fast-food si è sempre guadagnato poco, ma un tempo chi ci lavorava erano per lo più giovani studenti o mamme che volevano arrotondare. Oggi spesso i dipendenti dei fast-food sono maschi adulti immigrati, che devono mantenere una famiglia. E non ci riescono. L’agitazione è nata come un movimento spontaneo, ma ora ha l’appoggio organizzativo della Service Employees International Union, grosso sindacato dei dipendenti dei servizi. E’ importante per il sindacato, da anni in ritirata negli Stati Uniti e con livelli di tesseramento ai minimi storici, perché questa vertenza potrebbe consentirgli di mettere radici nel mondo della manodopera immigrata. Per adesso la risposta dei datori di lavoro alle richieste salariali è un secco no. La struttura del settore fastfood è così fatta: i dipendenti hanno come controparte dei padroncini i quali gestiscono talvolta un solo ristorante, e a loro volta sono spremuti dalle multinazionali come McDonald’s alle quali devono pagare delle royalty. I veri colossi, cioè appunto McDonald’s, Yum, Burger King, fanno finta che non sia un loro problema visto che non impiegano direttamente i lavoratori. In realtà dipenderebbe proprio da loro ridurre le royalty (e i profitti).


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