Quel giorno ero là devo a lui il Nobel

by Sergio Segio | 29 Agosto 2013 7:00

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La sera prima della Marcia su Washington per il Lavoro e la Libertà ero stato ospite a casa di un compagno di college, figlio di Arthur J. Goldberg, giudice associato della Corte Suprema, che era impegnato a realizzare la giustizia economica. Chi avrebbe mai immaginato che, 50 anni dopo, quello stesso organo, allora apparentemente deciso a dar vita a un’America più giusta e aperta, sarebbe diventato lo strumento per mantenere le diseguaglianze: consentendo alle imprese di destinare somme pressoché illimitate al fine di influenzare le campagne politiche, dando a intendere che il retaggio della discriminazione elettorale non esiste più e limitando il diritto dei lavoratori e di altri ricorrenti a denunciare gli imprenditori e le società per cattiva condotta?
Il discorso di King evocò in me molte emozioni. Per quanto fossi giovane e con le spalle coperte, facevo parte di una generazione che si rendeva conto delle ingiustizie ereditate dal passato e si impegnava a correggere quei torti. Nato durante la seconda guerra mondiale, sono diventato adulto mentre la società americana era pervasa da cambiamenti poco appariscenti ma inequivocabili.
In qualità di presidente del consiglio degli studenti dell’Amherst College, avevo condotto un gruppo di alunni a sud per partecipare alle manifestazioni di pressione a favore dell’integrazione razziale. Non riuscivamo a capire la violenza di chi voleva mantenere il vecchio sistema di segregazione. La visita ad un college riservato ai neri ci aprì gli occhi sulla disparità di opportunità educative degli studenti di laggiù rispetto a quelle di cui godevamo noi, nel nostro college privilegiato. Era come giocare su un campo mal livellato, ed era fondamentalmente ingiusto. Si trattava di un camuffamento dell’idea di sogno americano con cui eravamo cresciuti e in cui credevamo.
Fu perché speravo che si potesse fare qualcosa per risolvere questi ed altri problemi, così familiari a uno come me cresciuto a Gary, nell’Indiana (povertà, disoccupazione temporanea e permanente, discriminazioni senza fine ai danni degli afroamericani) che decisi di diventare un economista,
Ben presto scoprii di essere entrato in una strana tribù. Erano pochi gli accademici (inclusi parecchi dei miei insegnanti) che avevano profondamente a cuore le tematiche che mi avevano condotto a questa scelta, la maggior parte non si preoccupava delle diseguaglianze; la scuola dominante idolatrava (senza averlo compreso ) Adam Smith, inchinandosi al miracolo dell’efficienza dell’economia di mercato. Io pensavo che se quello era il migliore dei mondi possibili volevo costruire un mondo diverso in cui vivere.
Nello strano mondo dell’economia la disoccupazione (se esisteva) era colpa dei lavoratori. Un economista della scuola di Chicago , il premio Nobel Robert E. Lucas Jr., avrebbe scritto in seguito: «Tra le tendenze che nuocciono ad un’economia sana la più seduttiva e, a mio avviso, la più velenosa, è concentrarsi sul problema della distribuzione». Un altro premio Nobel della scuola di Chicago, Gary S. Becker, tentava di dimostrare che sui mercati del lavoro realmente competitivi la discriminazione non poteva esistere. Mentre io ed altri scrivevamo pubblicazioni per spiegare i sofismi di queste argomentazioni la sua tesi trovava orecchie attente.
Come tanti altri, guardando ai 50 anni passati, non posso che essere colpito dal divario tra le nostre aspirazioni di allora e i risultati ottenuti.
È vero, un “soffitto di vetro” è stato infranto: abbiamo un presidente afroamericano.
Ma King capì che la lotta per la giustizia sociale doveva essere concepita in termini ampi. Non era solo una battaglia contro la segregazione razziale, ma per una maggiore eguaglianza e giustizia per tutti gli americani. Non per nulla gli organizzatori, Bayard Rustin e A. Philip Randolph, avevano dato alla manifestazione il nome di “Marcia su Washington per il Lavoro e la Libertà”.
Sotto molti aspetti il progresso nei rapporti razziali era stato minato, persino rovesciato, dal crescere della disparità economica nell’intero Paese.
La battaglia contro la discriminazione esplicita, purtroppo, è tutt’altro che terminata: a 50 anni di distanza dalla Marcia e 45 anni dopo l’approvazione del Fair Housing Act (che proibisce la discriminazione nella vendita, affitto e finanziamento di alloggi
ndt)
le grandi banche statunitensi, come la Wells Fargo, continuano ad attuare discriminazioni in base alla razza, prendendo di mira nelle loro predatorie attività di finanziamento i più vulnerabili dei nostri concittadini. La discriminazione sul mercato del lavoro è permeante e profonda. Dagli studi emerge che i candidati con nomi che evocano origini afroamericane ricevono un numero minore di convocazioni a colloqui. La discriminazione assume nuove forme; in molte città americane le forze dell’ordine agiscono ancora in base a pregiudizi razziali, ad esempio con fermi e perquisizioni, che a New York sono diventati la regola. Il tasso di detenzione in America è il maggiore del mondo, anche se finalmente pare che gli Stati a corto di fondi inizino a capire quanto sia folle, se non inumano, sprecare tanto capitale umano attraverso la detenzione di massa. Quasi il 40 per cento dei detenuti sono neri. Questa tragedia è stata validamente documentata da Michelle Alexander ed altri giuristi.
I numeri parlano da soli: non è stato colmato significativamente il divario tra il reddito degli afroamericani (o ispanici) e quello degli americani bianchi negli ultimi 30 anni. Nel 2011, il reddito medio delle famiglie nere era di 40,495 dollari, pari al solo 58 percento del reddito medio delle famiglie bianche.
Passando dal reddito al patrimonio si riscontra ancora una forte ineguaglianza. Arrivati al 2009 la ricchezza media dei bianchi era venti volte superiore a quella dei neri. La Grande recessione del 2007-9 ha colpito particolarmente gli afroamericani (come avviene in genere per chi si trova al livello più basso della scala sociale). Tra il 2005 e il 2009 la loro ricchezza media è diminuita del 53 per cento, più del triplo rispetto a quella dei bianchi: un divario record. Ma la cosiddetta ripresa è stata poco più di una chimera: più del 100 per cento dei guadagni è andato all’un per cento al vertice della scala sociale, un gruppo in cui, inutile dirlo, non si annoverano molti afroamericani.
Chissà come si sarebbe svolta la vita di King se non fosse stata interrotta bruscamente dal proiettile di un assassino. Trentanovenne al momento della morte, oggi avrebbe 84 anni. Probabilmente avrebbe approvato i tentativi del presidente Obama di riformare la sanità americana e di
tutelare la sicurezza sociale per gli anziani, i poveri e i disabili, ma è difficile immaginare che un uomo di tale statura morale avrebbe guardato all’America di oggi con un atteggiamento che non fosse di angoscia.
Al di là della retorica sul Paese delle opportunità, le prospettive di un giovane americano dipendono più dal reddito e dal livello di istruzione dei suoi genitori di quanto non avvenga in quasi tutti gli altri Paesi avanzati. Così il retaggio di discriminazione e mancanza di opportunità educative e lavorative si perpetua da una generazione all’altra.
Data questa carenza di mobilità, il fatto che ancora oggi il 65 per cento dei bambini afroamericani viva in famiglie a basso reddito non fa presagire bene per il loro futuro e quello della nazione.
Gli uomini con il solo diploma di scuola superiore hanno visto diminuire enormemente il loro reddito reale negli ultimi vent’anni, un declino che ha interessato a dismisura gli afroamericani.
La segregazione esplicita su base razziale nelle scuole è proibita dalla legge ma in realtà la segregazione nell’istruzione si è accentuata negli ultimi decenni, come hanno documentato Gary Orfield ed altri studiosi.
In parte il motivo è che il Paese registra una maggior segregazione economica. E più probabile che i bambini neri poveri vivano in comunità in cui la povertà è concentrata. Stando ai dati forniti dall’Economic Policy Institute sono circa il 45% , contro il 12% dei bambini poveri bianchi.
Quest’anno ho compiuto i settanta. Gran parte della mia attività accademica e pubblica negli ultimi decenni – incluso il servizio presso il Consiglio dei consulenti economici dell’amministrazione Clinton e, in seguito, presso la Banca Mondiale, è stata dedicata alla riduzione della povertà e dell’ineguaglianza. Spero di aver saputo rispondere all’appello lanciato da King mezzo secolo fa.
King aveva ragione quando diceva che il persistere di queste discrepanze è un cancro nella nostra società, mina la nostra democrazia e indebolisce la nostra economia. Il suo messaggio era che le ingiustizie del passato si potevano evitare. Ma sapeva anche che sognare non bastava.
© The New York Times 2013 (Traduzione di Emilia Benghi)

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